Giornalista affermato, Zhang Wen si è avvicinato dall'inizio del 2011 al fenomeno delle Rivolte del gelsomino, che sta scuotendo il Nord Africa e il Medio Oriente. Il suo punto di vista rientra in quello di un'ampia parte di opinione pubblica cinese che ha dato molto rilievo ai movimenti in questione, enfatizzandone la valenza democratica e la funzione popolare. Il post che abbiamo selezionato è del 9 febbraio, poco prima dell’allontanamento di Mubarak dal potere. Il testo offre un'interpretazione dei fatti egiziani tracciando un parallelo anche tra il caso egiziano e quello cinese. Per via dei contenuti abbastanza espliciti il post ha avuto una certa eco anche tra gli osservatori occidentali. In seguito allo scoppio della rivolta in Libia, Zhang Wen ha esortato l’autorizzazione delle Nazioni Unite all’invio di truppe americane nel paese nord-africano.
Il compromesso di Mubarak
Il dibattito politico in Cina spesso può deprimere le persone. Per via dell’etichetta di “antica civiltà con cinquemila anni di storia”, quando si parla di Cina si bada sempre a specificare le “caratteristiche cinesi” e “il contesto politico”.
Recentemente in Africa c’è stata la Rivoluzione dei gelsomini. Io e altri compatrioti abbiamo assistito a questo grande e distante evento, che ci ha dato forza nell’animo, ma contemporaneamente ci ha tagliato il respiro. Ben Ali, al potere da ventitré anni, è stato deposto dal furore delle masse e cacciato all’estero come una persona odiata dal popolo; Mubarak, al potere da trenta anni, è finalmente sceso a compromessi con l’opposizione, garantendo che né lui né suo figlio avrebbero partecipato alle prossime elezioni presidenziali. Però ci sono paesi dove un partito è ostinatamente e ininterrottamente al potere da sessanta anni, senza dare il minimo segnale di volere alternarsi con altri soggetti nella gestione politica.
[...] Il principale timore di chi è al governo è quello di perdere il potere, dai tempi antichi fino a oggi, nei sistemi democratici e in quelli dispotici. Tutti i politici ricorrono a ogni mezzo disponibile per contrattaccare gli oppositori e difendere i propri interessi. L’unica differenza è che in un sistema democratico il mezzo per ottenere il potere sono le elezioni, mentre un sistema dittatoriale si appoggia alle forze militari, di polizia e agli apparati statali.
Conosco molte persone che hanno bene accolto il compromesso di Mubarak e questo naturalmente è positivo. Un vero politico deve sapere riconoscere il momento in cui è necessario scendere a compromessi. In questo momento Mubarak non aveva altra via di uscita; l’esercito, suo favorito referente, aveva già manifestato la volontà di rimanere neutrale e di non aprire il fuoco sui manifestanti.
L’esercito attuale egiziano si è sviluppato dal Free Officer Movement, creato nel 1948 da Nasser. In teoria in Egitto vige un sistema ispirato al multipartitismo, ma in realtà si è instaurato un regime militare. I tre presidenti che si sono succeduti –Nasser, Sadat e Mubarak- provengono tutti dal Free Officer Movement; l’unica differenza è che Mubarak è più giovane.
La presa di posizione da parte dell’esercito egiziano è riconducibile in primo luogo all’insoddisfazione per il piano di Mubarak, volto a passare il potere al proprio figlio dopo trenta anni di saldo controllo della posizione presidenziale. In secondo luogo va tenuta presente la pressione americana: la maggioranza delle armi e degli equipaggiamenti militari sono forniti dagli USA.
In passato, Mubarak aveva riconosciuto pubblicamente che per estendere il processo democratico sarebbe stato altresì necessario sviluppare la capacità degli egiziani di “assorbire” la “medicina” della democrazia, un processo non realizzabile in tempi brevi. Queste parole hanno senz’altro del vero, ma sono anche estremamente fuorvianti, perché impiegate spesso da chi è al governo come pretesto per ritardare la transizione del potere. I cittadini debbono sviluppare la propria capacità di adattamento alla democrazia attraverso la pratica di questa e non in relazione al giudizio di chicchessia, in particolare di chi governa.
Ad esempio, nelle zone rurali cinesi, dove la qualità dello spirito non è elevata e la democrazia è ritenuta di difficile adattamento, sono stati condotti i primi esperimenti democratici, attraverso l’elezione dei capi-villaggio. A distanza di venti anni, il vento della democrazia soffia sempre e solo nelle campagne e non arriva nelle aree urbane, dove sarebbe invece maggiormente perseguibile. Ancora oggi ci sono persone che sostengono che la qualità morale dei cinesi sia troppo bassa per adattarsi alla democrazia, o che la realizzazione della democrazia in Cina debba passare per una violenta agitazione di grandi dimensioni.
Anche Mubarak ragionava più o meno in questi termini: sarebbe voluto restare ancora nella scena politica lasciando il potere al figlio, per sviluppare piano piano la democrazia in Egitto! [...]
La democrazia è qualcosa di positivo, questo non è più in discussione ed è riconosciuto dalla maggioranza dei cinesi. In Cina, il grande problema ancora irrisolto è l’attuazione su vasta scala di questo valore. Osservando la condotta delle autorità al potere, manca ancora una piena assimilazione della democrazia, persino nella predisposizione mentale. Questo è chiaro se si pensa a quanto sia diffusa la critica ai valori universali nell’opinione pubblica.
La sola ragione di ciò sta nel fatto che la pressione non è ancora abbastanza forte, non è sufficiente a spingere le autorità al compromesso. Ci sono persone che parlando del movimento che si sviluppò venti anni fa [il riferimento è ai fatti di Piazza Tian’an men, n.d.t.], sostengono che il governo e le masse (principalmente studenti) furono entrambi responsabili di ciò che accadde; con questo intendono dire che governo e masse non riuscirono a trovare alcun compromesso, per cui si arrivò allo spargimento di sangue. Ma in realtà, in un processo di riforma politica, è senz’altro un governo che deve ascoltare la voce delle masse e fare maggiori compromessi.
Un movimento di piazza –formatosi temporaneamente e sotto determinate condizioni, che consiste di idee diverse e sviluppatosi principalmente dall’iniziativa di una ventina di studenti- come può avanzare un compromesso a un governo provvisto di una rigorosa organizzazione? In queste situazioni è naturale che sia il governo a prendere l’iniziativa per un compromesso sostanziale, compiendo una mediazione di successo in grado di pacificare i disturbi in piazza.
Secondo me, dopo trenta anni di influenza da parte delle riforme di apertura, e in particolare con la spinta liberatrice che internet ha fornito negli ultimi dieci anni, le condizioni per una piena realizzazione della democrazia in Cina sono mature; è arrivato il momento di eleggere direttamente i capi contea, i sindaci delle città e i governatori provinciali. Dovremmo essere pronti per dire “I tempi sono maturi, manca solo il vento d’Oriente (1)”. E il vento d’Oriente –l’ultima condizione necessaria- altro non è che senso di responsabilità e saggezza da parte del partito al potere. Se questo passaggio avverrà attraverso una rinascita interna, come nel caso del partito nazionalista cinese dopo la cacciata dal continente, o con la deposizione forzata di chi è al potere, come avvenuto in Tunisia, dipende solo dal Partito.
(1) La frase (万事俱备, 只欠东风 Wanshi jubei, zhi qian dong feng) è una citazione dal celebre Romanzo dei tre regni, uno dei classici dell’epica cinese risalente al Quattordicesimo secolo.
Tradotto da
Mauro Crocenzi, 08 Marzo 2011
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