Aluss
阿鲁斯
Aluss ci accoglie nel suo spazio, una piccola caffetteria fra i tanti hutong di Pechino. Il brizzolato quarantenne, con un sorriso ironico afferma “la sto passando, la crisi dei quarant'anni è vera, l'ho anche letto su molti libri...”, poi si siede, con un tè in mano e ci racconta di lui.
Nasce ad Alukeerqinqi, un piccolo paese della Mongolia interna, oppure solo uno scioglilingua, per chi non è pratico di quelle terre. Il resto della vita l'ha trascorso tra Pechino e l'essere costantemente in viaggio con la macchina fotografica al collo: la caffetteria è il suo spazio; la fotografia, la sua passione e il suo lavoro.
“Sono nato e cresciuto nella prateria, quando ho cominciato ad aprire gli occhi, ho visto mia madre e mio padre. Poi, piano piano, mi sono reso conto che quello che c'era attorno a me era solo natura. Da piccolo e per tutta l'adolescenza ho visto solo la natura. E mi si è impressa nel cervello. Poi arrivi in città vedi i palazzi alti, le macchine, la gente e tante altre cose, ma è quello che hai visto da piccolo, il primo imprinting, che ti porti avanti fino alla morte. Sono le cose migliori e le conservi dentro di te.”
Aluss è spinto dalla ricerca di luoghi lontani che conosce bene, un ambiente in cui è cresciuto e che ha visto cambiare. Ha viaggiato per dieci anni in quasi tutto il nord ovest della Cina: dal deserto dello Xinjiang, fino al verde Qinghai e al desolato Gansu. La sua è una documentazione artistica del cambiamento: è stato, volente o nolente, spettatore del lento modificarsi di quelle terre che sono parte della sua memoria. Sono luoghi, oggi, in cui il confine della prateria si sta sempre più ritirando, costretto dalle miniere di carbone che concedono poco o nulla alla protezione ambientale.
“In Mongolia la situazione è sempre più grave di anno in anno, il fatto è che la Cina deve svilupparsi, ma come lo fanno? Utilizzano la tecnologia, scavano per cercare le materie prime e ha inizio il cosiddetto sviluppo. In molti posti della Cina si aprono miniere, cercano il petrolio o altre materie prime per le industrie. Ma non c'è un programma di protezione ambientale, si pensa solo allo sviluppo. Poi? Pensaci: scavi un anno, due anni, dieci anni, trent'anni e poi è finito non c'è più nulla. Né l'uomo né gli animali riusciranno a sopravvivere.”
L'attenzione all'ambiente e alle sue deviazioni più dolorose si associa al tema delicato delle radici e della propria identità. Il cavallo è uno dei soggetti principali delle opere di Aluss. Animale utile all'uomo e simbolo della velocità, ma anche parte integrante dell'identità mongola che piano piano sta anch'essa svanendo, travolta dall'urbanizzazione.
“Il fatto è che per i Mongoli, fin dall'inizio con la vita nomade, poi con Genghis Khan, che ha unificato tutte le tribù, e infine con l'impero mongolo, l'uomo ha sempre avuto un rapporto molto stretto con i cavalli. La forza, la velocità, le battaglie, la terra, le conquiste dei mongoli. I mongoli hanno avuto una stretta relazione con i cavalli. Molte persone cavalcano da quando hanno due o tre anni fino a quando sono vecchi....i cavalli della prateria prima erano tantissimi, adesso sono sempre di meno, sempre di meno. Ma i cavalli sono sempre protagonisti della musica mongola e delle nostre poesie.”
Oggi le cose sono cambiate: c'è chi parte per trovare un lavoro, chi si sposta nelle città per cercare un tenore di vita migliore tra le scintillanti opportunità di Pechino o Shanghai. È un atto fatto a malincuore, o forse con lo spirito di emancipazione che avevamo noi italiani tanto tempo fa. Aluss invece prova nostalgia. Utilizza questo sentimento per i suoi lavori che non sono la mera riproduzione del reale, ma fotografie dove la realtà è alterata e indistinta. La modificazione dell'ambiente circostante ci ricorda che quello che vediamo, un tempo non era così, l'indefinito ci fa assaporare l'amarezza di quegli spazi spogli.
“Se penso a tutti i posti in cui sono stato, forse quello che mi è rimasto dentro e che spesso mi appare in mente, è un luogo visto tanto tempo fa, lo Xinjiang: le montagne del Tianshan, la prateria di Bayin Buluke ... sono già passati dieci anni, ma mi viene spesso in mente. A Pechino, quello che ho visto ieri, scompare subito dalla mia mente, in quanto il mio animo non è qui. È una questione di animo, se manca quello, le cose non le riesci a vedere veramente.”