Cosa può fare l’Occidente per l’Egitto?


2013 Set
03

Cosa può fare l’Occidente per l’Egitto?
西方可以为埃及做什么? di Chen Jibing ( 陈季冰 )


Sono passati due anni dalla “primavera araba”. In Cina, l’ondata di malcontento creò ben presto facili parallelismi, maturando una certa attesa per una “rivoluzione dei gelsomini” mai esplosa nelle vie del gigante cinese. Oggi la Cina continua a guardare con maggiore distacco ai tragici fatti in Medio Oriente. La traduzione che proponiamo questa settimana è un estratto di un articolo del giornalista Chen Jibing, pubblicato lo scorso agosto sul Nanfang dushi bao (南方都市报, Metropoli del Sud). L’analisi mette in rilievo con distacco e disincanto gli interessi dei paesi occidentali nel pasticcio egiziano.

Catherine Ashton, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’Europa unita, è la sola mediatrice riconosciuta sia dall’esercito egiziano sia dall’Associazione dei fratelli musulmani. La sera del 29 luglio le è stato concesso di fare visita a Mohamed Mosri, il Presidente egiziano destituito e tuttora agli arresti. Subito dopo l’incontro, Ashton ha dichiarato ai media che, per mettere fine agli scontri in Egitto, si sarebbe dovuto intraprendere un processo politico “inclusivo” e che questo stesso processo avrebbe dovuto coinvolgere anche l’Associazione dei fratelli musulmani.

Lo stesso giorno, un portavoce della Casa bianca ha condannato pubblicamente le violenze del 27 luglio al Cairo, dove le forze di sicurezza egiziane, in occasione del grande raduno organizzato dai sostenitori dei Fratelli musulmani contro l’esercito, avevano aperto il fuoco uccidendo decine di persone. Prima di allora, il Segretario di stato John Kerry e il Ministro della difesa Chuck Hagel avevano trasmesso un messaggio ai leader egiziani, esprimendo la loro preoccupazione per la situazione in Egitto e premendo affinché l’esercito mantenesse il controllo per evitare ulteriori scontri violenti. Tuttavia, il governo americano non ha condannato esplicitamente l’esercito per il massacro. E non finisce qui, perché Hagel, il 31 luglio, ha dichiarato che gli Stati uniti avrebbero confermato lo svolgimento dell’esercitazione militare su grande scala, nome in codice “Bright star”, prevista sul territorio egiziano per metà settembre.

Il 3 luglio, il Comandante delle forze armate, nonché Ministro della difesa, il generale Abd al-Fattah Khalil al-Sisi ha deposto Mosri, vale a dire il primo Presidente eletto dal popolo nella storia egiziana. Successivamente, per tutto il mese di luglio, i paesi occidentali hanno dimostrato, senza eccezione, estrema circospezione nel trattare una questione spinosa e imbarazzante. La faccenda è delicata a tal punto da costringere i governi più importanti e diplomaticamente più vicini all’Egitto –Stati uniti e Israele- a mostrare cautela negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni. Entrambi sono paesi democratici e hanno sempre inseguito e sposato valori liberali e costituzionali, per cui non sarebbe stato possibile trasmettere un messaggio pubblico di congratulazioni di fronte a un colpo di stato militare. Però si trattava di un colpo di stato che non solo sembrava andare a vantaggio dei loro interessi, ma che avrebbe realmente rappresentato anche il volere del popolo egiziano. Finora, gli Stati uniti e l’Occidente hanno evitato di utilizzare l’espressione “colpo di stato militare”, perché –stando al diritto americano- tale definizione avrebbe obbligato a frenare l’enorme aiuto finanziario fino a oggi destinato all’Egitto.

A una settimana dal colpo di mano, il dipartimento di Stato degli Stati uniti ha diramato una nota ufficiale secondo cui il governo Morsi era “antidemocratico”, azione che è apparsa come una presa di posizione a favore dell’esercito. Contemporaneamente, comunque, gli Stati uniti e l’Europa hanno esercitato una costante pressione nei confronti dell’esercito, affinché si tenessero il prima possibile elezioni “libere e imparziali” e si restituisse il potere a un governo eletto dal popolo.

Quel che è certo è che nella comunità internazionale la crisi politica egiziana ha diviso l’opinione pubblica in due schieramenti diametralmente opposti: la fazione “democratica” ritiene che l’esercito egiziano, nel tentativo di mantenere un regime dittatoriale, ha dato vita a uno sporco colpo di stato che calpesta i diritti democratici. La fazione “costituzionale”, al contrario, resta ferma sulla posizione secondo cui Morsi e la sua formazione politica abbiano provato inutilmente a ripristinare un governo religioso contrario al principio di laicità dello stato, mentre l’azione dell’esercito avrebbe come scopo la difesa delle libertà fondamentali democratiche.

Al di là di queste due argomentazioni opposte, del tipo “o bianco o nero”, nella rete cinese si è diffusa anche una tesi complottista, che non si sa se fa più ridere o piangere. Secondo questa teoria, dietro le quinte del colpo di stato militare, ci sarebbe la mano oscura del governo degli Stati uniti. Si tratta degli stessi complottisti che due anni fa gonfiavano il petto di indignazione, addossando agli Stati uniti la responsabilità delle agitazioni popolari e accusandoli di avere istigato la rivoluzione della “primavera araba”. A quelli come me, che pensano di avere un’intelligenza nella norma, questa tesi non può che suscitare perplessità: il governo degli Stati uniti avrebbe provocato instabilità sociale in un’area in cui possiede cospicui interessi? E tutte le iniziative contraddittorie che avrebbero preceduto e seguito la primavera araba? Sarebbero dunque dovute al fatto che chi stabilisce le politiche estere americane ha un quoziente intellettivo inferiore a quello degli osservatori –a tempo perso- di politica internazionale in Cina?

A più di due anni dall’esplosione della “rivoluzione araba”, la maggioranza dell’opinione pubblica seria cinese spiega i fatti che hanno sconvolto l’Egitto con la dicotomia “governo religioso vs governo laico”. Naturalmente non si tratta di una prospettiva infondata. Tuttavia, da quanto ho letto, può essere tutt’al più  una delle numerose chiavi di lettura della complessa questione egiziana e mediorientale, motivo per cui è tutt’altro che soddisfacente. Dopo la sua entrata in scena, l’Associazione dei fratelli musulmani ha realmente adottato delle politiche islamiste, provando anche a strizzare l’occhio alla corrente estremista islamica dei salafiti. Tuttavia, questo non è sufficiente per concludere che intende ripristinare un governo religioso contro il principio di laicità dello stato. Per questo motivo, piuttosto che pensare che Morsi e il suo partito stiano facendo del loro meglio per attuare un processo di islamizzazione dell’Egitto, sarebbe il caso di affermare che la paura e lo scetticismo della gente sono ispirati da una tradizione ideologica dura a morire. E che il timore nei confronti dell’Associazione dei fratelli musulmani e dei gruppi ancora più estremisti abbia di gran lunga amplificato gli intenti religiosi che agiscono all’ombra delle loro iniziative politiche.

Continuando ad analizzare la politica egiziana e mediorientale attraverso la semplice dicotomia tra religiosità e laicità, ci ritroveremo tristemente in un vicolo cieco.  È la stessa logica sostenuta costantemente da dittatori mediorientali del calibro di Mubarak e di Bashar al-Asad: senza il loro regime oppressivo, il potere militare cadrebbe inevitabilmente nelle mani di radicali mullah dalle ristrette vedute e ben attivi nelle moschee. Da molti anni questi dittatori riescono a far credere all’Occidente e al mondo intero che nel mondo arabo non è possibile percorrere la via delle riforme democratiche, perché la democratizzazione potrebbe permettere agli islamisti di ottenere il potere e di attuare quindi un voltafaccia, sopprimendo il moderno pluralismo politico. In parole povere, la democrazia potrebbe lasciare l’intero Medio Oriente alla mercè degli estremisti islamici, che farebbero ritornare il mondo arabo al Medio Evo, rendendolo nemico dell’Occidente e del resto del mondo.

Il dramma che si è consumato nel 1979 in Iran sembra dimostrare la loro visione profetica, tanto da gettare nel panico il mondo occidentale –in primis gli Stati uniti- e costringerlo a un patto “faustiano” con i dittatori arabi. Per il governo egiziano, lo spettro dell’estremismo islamico è divenuto il pretesto per proclamare a più riprese lo stato di emergenza a partire dal 1981 e, contemporaneamente, per giustificare l’attuazione di arresti illegali e trattamenti inumani.

In realtà, allo stato attuale delle cose, se è vero che esiste il rischio concreto di una presa del potere da parte del fondamentalismo, è ancor più realistico il seguente scenario: è proprio la pressione esercitata nel lungo periodo dai regimi a far sì che la profezia dei dittatori arabi possa realizzarsi, poiché le dittature hanno distrutto lo spazio per un normale sistema e per la vita politica nel mondo arabo, creando le condizioni favorevoli e i germi per la prosperità del fondamentalismo. Chi intende opporsi non ha praticamente scelta se non quella di rifugiarsi nelle moschee e nelle scuole coraniche, mentre la popolazione povera e ignorante trova conforto solo nel Corano e nella storia. D’altro canto, le organizzazioni religiose che sono rappresentate dall’Associazione dei fratelli musulmani sanno davvero bene come contendere ai governanti il favore popolare, grazie a un’estesa rete di assistenza sociale.

In questo momento l’Egitto è a un bivio. Può scegliere se volgersi al modello turco (una moderna società democratica fondata sul pluralismo) o ritornare all’epoca di Mubarak (una dittatura militare ad alta pressione), o –ancora- se procedere verso il modello iraniano (un governo religioso di natura islamica). La scelta ovviamente dipenderà dalla popolazione egiziana e dalle tre principali forze politiche attive in Egitto: l’esercito, gli islamisti radunati intorno all’Associazione dei fratelli musulmani e la fazione liberale laica. Tuttavia, anche gli Stati uniti e gli altri paesi occidentali potrebbero ricoprire un ruolo di primo piano.

Tra i grandi stati l’Egitto è secondo solo a Israele per aiuti ricevuti dagli Stati uniti, un supporto di gran lunga superiore persino a quello ricevuto dopo l’11 settembre dalla coalizione anti-terrorismo in Pakistan; gli Stati uniti si sono basati a lungo su un rapporto di 3:2 nell’assegnazione di aiuti da destinare a Israele ed Egitto. Anche se negli ultimi decenni questa proporzione ha subito delle fluttuazioni, allo stato attuale gli aiuti si aggirano intorno a una cifra annuale pari a un miliardo e seicento milioni di renminbi. Di questa somma, un miliardo e trecento milioni sono destinati esclusivamente all’esercito. Stando ad alcune statistiche, questi soldi corrispondono al quaranta-cinquanta per cento delle spese militari egiziane. Da questi dati è evidente il potere d’influenza degli Stati uniti sull’esercito egiziano (1).

In realtà, gli Stati uniti non hanno mai interrotto i contatti con l’esercito egiziano. Stando ad alcune notizie, dopo i fatti del 3 luglio, il Ministro della difesa americano Hagel si è mantenuto costantemente in contatto con il capo dell’esercito egiziano al-Sisi. L’esercitazione militare congiunta “Bright star”, che si svolgerà nel prossimo mese, viene organizzata una volta ogni due anni a partire dal 1981 e può essere considerata la pietra miliare delle relazioni tra Stati uniti ed esercito egiziano (2).

Non servono altri giri di parole: la rivoluzione della primavera araba ha oramai completamente riscritto la mappa politica del Medio Oriente, l’Occidente non potrà più appoggiare, come ha fatto in passato, una dittatura militare che non gode del sostegno popolare. Dovrà assolutamente –poiché ne ha pure le capacità- esercitare maggiore pressione sull’esercito egiziano, oggi come oggi saldamente al controllo della situazione, e costringerlo a passare dal giusto lato della storia.

Note al testo:
(1) Gli aiuti militari degli Stati uniti sarebbero stati sospesi temporaneamente il 20 agosto, dopo l’annuncio di una revisione da effettuare sugli aiuti da destinare proprio all’esercito egiziano. Il giorno dopo, anche l’Europa avrebbe sospeso l’esportazione di armi verso l’Egitto.
(2) L’operazione militare congiunta Bright Star è stata annullata all’indomani del massacro del 14 agosto, dopo la pubblicazione dell’articolo di Chen Jibing.

Tradotto da Mauro Crocenzi, 03 Settembre 2013
 



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