La dignità: trattare una persona come tale


2012 Apr
02

La dignità: trattare una persona come tale
记者眼中的“尊严” di Wang Keqin ( 王克勤 )


Essere giornalisti significa andare alla ricerca del vero. Questa ricerca non comporta solo l’ascolto e l’aiuto di persone in cerca di giustizia, ma anche il confronto con le suppliche di esseri umani privati della dignità, persone che prima ancora di richiedere riparazione a un qualsiasi torto subito invocano di non essere costrette all’umiliazione.
In una riflessione sul senso della dignità, Wang Keqin mette in evidenza uno dei mali della società cinese, che anticipa ogni divergenza di opinione sui grandi temi della democrazia, del monopartitismo o dello sviluppo, e che punta dritto a un problema connaturato al vivere in qualsiasi società: il rapporto tra chi detiene il potere e chi è costretto a subirlo.


La “dignità” agli occhi di un giornalista (I Parte)


Quando penso alla parola “dignità” e agli ideogrammi che la compongono, i miei occhi rivedono gli sguardi di una folla supplicante e inginocchiata a terra, e scene che queste persone hanno vissuto sulla loro pelle e che non potranno mai dimenticare.
Quando penso alla parola “dignità” e agli ideogrammi che la compongono, nelle mie orecchie risuonano le voci di molti petizionisti1 e di persone venute da me in cerca di aiuto: Vogliamo solo che il governo ci tratti come delle persone.
Quando penso alla parola “dignità” e agli ideogrammi che la compongono, anche nel cervello riemergono situazioni imbarazzanti, ineluttabili e umilianti, attraverso cui io e molti altri miei compagni giornalisti siamo dovuti passare.

E tutte queste scene di sofferenza insopportabile si sono susseguite fino a oggi e continuano ad aumentare ininterrottamente.

[...]

Il 1 ottobre del 2001 mi trovavo nella regione di Dingxi, nel Gansu, per realizzare delle interviste. Rimasi per sette giorni e sette notti nella frazione di Baozi, nella Contea di Min, il luogo più penoso che esista al mondo. Quando camminavo a piedi su un percorso serpeggiante di montagna, da una curva potevano sempre fuoriuscire una donna o un vecchio contadino che con mani tremanti estraevano dei formulari di lamentela spiegazzati. Mi pregavano di “schierarmi con la giustizia” e anche se in realtà ero solo un comune giornalista mi trattavano come fossi un “funzionario incorruttibile e senza macchia”.

Non appena entravo nel cortile interno di una casa contadina, subito gli abitanti del villaggio cominciavano ad arrivare in successione; poco importava se il tetto era basso o il cortile angusto, le persone si affollavano ovunque per “denunciare un sopruso”. Che fosse giorno o notte fonda trovavo sempre qualcuno ad aspettare che mi svegliassi da un sonnellino di tre o quattro ore. Il mio animo si faceva sempre più pesante.

La mattina del 3 ottobre, alle undici, stavo percorrendo una stradina di montagna per raggiungere un altro villaggio, chiamato Zina, quando vidi a cento metri di distanza una folla di persone prostrarsi sul pendio all’ingresso del villaggio. A chinarsi non c’erano solo dei giovani contadini nel pieno delle forze, ma anche anziani dai capelli bianchi e grigi e bambini nell’età dell’innocenza. Quando arrivai davanti a loro gli abitanti del villaggio iniziarono a gridare: Funzionario incorruttibile e senza macchia, misericordioso Bodhisattva2, alto dirigente, siamo trattati davvero in modo ingiusto!.

In seguito alle mie domande scoprii che in questo posto sperduto tra grandi montagne e profondi burroni molte persone temevano di subire violenze dai quadri locali e di essere cacciati dal loro villaggio perché non erano in grado di pagare delle multe. Quadri di diverso livello abusavano a loro piacimento della popolazione, la violenza sui contadini era la norma e molti uomini venivano etichettati senza ragione come “malfattori”. Una signora mi disse piangendo: Se un giovane in piene forze come mio figlio viene condannato pubblicamente, quale donna potrà mai sposarsi con lui?. [...]

Questa è solo una delle innumerevoli storie a cui ho assistito in vent’anni di carriera e che hanno a che fare con la “dignità”.
A nove anni di distanza questi fenomeni non sono tutt’altro che diminuiti, hanno semplicemente assunto nuove forme per manifestarsi di volta in volta.
La grande maggioranza dei petizionisti provenienti da tutta la Cina sono come quelle persone che stringevano in mano un formulario di lamentele. All’epoca del mio reportage in Gansu i contadini riponevano tutte le loro speranze nei giornalisti e nei media. Anche oggi i giornalisti sono i principali depositari delle speranze di un numero illimitato di petizionisti. Molti petizionisti, appena messo fuori il naso dal mio ufficio, possono essere ancora fermate dagli amministratori locali. Decine di tassisti provenienti da ogni parte del paese sono stati arrestati una volta tornati a casa solo per essere stati ricevuti nel mio ufficio3. Senza tenere conto che nell’universo dei petizionisti i tassisti non sono che un piccolo gruppo se paragonati ai contadini privati della loro terra o alle persone costrette ad abbandonare le proprie case.

La sera del 3 ottobre del 2009 all’interno dell’Ufficio locale per le petizioni è stata data la notizia infondata della morte di Li Shulian, una petizionista di 56 anni in passato venuta nel mio studio. Avevo conosciuto Li Shulian il 9 luglio dello stesso anno, quando si era presentata con un’altra donna, Yao Jing, nella redazione del Zhongguo jingji shibao. In quell’occasione, Li Shulian mi disse che aveva avviato un’attività commerciale privata nella città di Longkou, nella provincia dello Shandong, con un capitale di oltre un milione di yuan. Nell’aprile del 2001 era nata una disputa con l’Ufficio municipale locale per la gestione e lo sviluppo del mercato, per via del contratto di affitto del negozio che aveva aperto. Il negozio fu inondato d’acqua dall’Ufficio per la gestione e costretto così alla chiusura, provocando perdite complessive per un milione settecentoventimila yuan. La madre di Li Shulian era stata picchiata e sarebbe morta con un odio irrisoluto dopo nove mesi.

Dopo aver perso la causa sia in primo sia in secondo grado di appello, Li aveva scelto la via della petizione. Da allora, in sei, sette anni, era stata presa in custodia otto volte e imprigionata in tutto per ottantasette giorni. L’11 e il 12 marzo la televisione locale aveva anche parlato del suo caso, rivelando la sua intenzione di presentare una petizione a livelli di amministrazione più alti.

Ma se il 9 luglio era venuta a trovarmi era per un fatto preciso, la cosa più umiliante che le fosse capitata da quando aveva deciso di ricorrere a una petizione: era stata arrestata senza alcun vestito indosso.

Il 28 giugno a mezzanotte si trovava a Pechino per presentare la sua petizione, in una stanza della casa in affitto al 24 di Xingfu li, nella zona di You an men, distretto di Fengtai. Alloggiava con più di dieci petizionisti, con cui condivideva un letto a più piazze. All’improvviso si svegliarono tutti, sentendo aprire la porta dell’appartamento nonostante precedentemente fosse stata chiusa a chiave. Fecero irruzione tredici uomini a torso nudo e dalla corporatura massiccia, che urlavano: Tu, alzati! Anche tu, in piedi!. Li Shulian e un’altra compagna, la petizionista Li Chunhua vennero svegliate. Non fecero neanche in tempo a indossare un vestito, che uno di questi uomini ripeté Sì, proprio tu, alzati!, scoprendo Shulian dalla maglia che aveva poggiato sull’addome. Provò a prendere un paio di pantaloni ma le furono tolti di mano, quindi cercò istintivamente di afferrare il cellulare in carica, ma ancora una volta l’oggetto fu preso da uno degli uomini. Sopraggiunsero due individui che le torsero i polsi dietro la schiena, spingendola così fuori dalla stanza, priva di indumenti. Appena fuori dalla porta Li Shulian ricevette dei colpi violenti dietro la nuca, mentre una voce le sussurrò: Non fiatare, se apri bocca sarà peggio per te.

Dopo essere stata trascinata in uno hutong per una ventina di metri, Li Shulian fu spinta in un minibus fermo davanti all’ingresso di un cortile. Anche Li Chunhua fu gettata allo stesso modo senza vestiti all’interno della vettura. Dopo poco più di una decina di minuti di viaggio, l’auto si fermò di nuovo. Una voce gridò: Lei in quella macchina, lei in quell’altra. Li Shulian ancora una volta fu spinta all’esterno senza vestiti indosso e trascinata fino a un’altra macchina, distante circa una decina di passi. Solo allora ci fu una persona che le gettò contro i suoi vestiti e lei li indossò prontamente. Nell’auto salirono altre persone: un dipendente del Tribunale di giustizia di Longkou, nello Shandong, e quattro membri del Comitato di quartiere di Donglai, sempre della città di Longkou.

L’umiliazione a cui era stata sottoposta Li Shulian mi fece pensare a quella subita da tante altre Li Shuyuan, in tanti altri luoghi della Cina.

Gli antichi saggi, centinaia di secoli fa, dicevano che le vite di ogni persona sono uguali; la vita, i beni e la libertà sono un diritto naturale di cui non si può essere privati e che non possono essere trasferiti. La sottrazione e l’abbandono di tali diritti corrisponde alla sottrazione e l’abbandono della condizione stessa dell’essere umano, cioè della stessa natura umana. L’obiettivo della legge è quello di difendere ed estendere la libertà individuale. Anche le limitazioni al potere politico sono una garanzia del diritto individuale di libertà. Il testo della Costituzione recita: «Tutti i cittadini della Repubblica popolare cinese sono uguali davanti alla legge. Lo Stato rispetta e tutela i diritti umani e proibisce il ricorso a qualunque strumento di umiliazione, diffamazione e false accuse dei cittadini».

Per me “garantire a chiunque una vita felice e dignitosa” significa “trattare gli uomini come tali”. Questo principio coincide anche con il più intenso appello alla denuncia degli affari illeciti e alla tutela delle persone, che ho sempre invocato nella mia carriera professionale. “Trattare gli uomini come tali” è il principio base delle società civili, il fondamento delle civiltà umane e soprattutto il principio primo delle società umane. Questo concetto prescinde dal principio politico secondo cui “il popolo è padrone dei propri affari”, piuttosto corrisponde proprio all’atto pratico di trattare ogni uomo come un essere umano; che si parli di un vagabondo o di ricchi funzionari e mercanti, tutti gli individui devono godere del diritto al rispetto.

Sono convinto che la Cina di oggi non sia già più una società arretrata basata sulla servitù, ma che stia diventando una società civile che presterà sempre più attenzione alla dignità e ai diritti umani.

(1) Sono chiamati petizionisti quei cittadini che sottomettono alle autorità locali e centrali la denuncia delle ingiutizie subite per mano dell’amministrazione pubblica. Il trattamento ricevuto dai petizionisti è stato a più riprese documentato dai media: spesso ignorati, inascoltati dopo lunghi viaggi e ostinate attese per far valere un diritto, a volte minacciati o maltrattati, quando non addirittura malmenati e arrestati. (2) Nella religione buddhista i bodhisattva sono uomini che pur avendo raggiunto l’illuminazione decidono di non estinguersi nel Nirvana ma di permanere tra gli esseri umani e reincarnarsi per misericordia. (3) Lo scandalo delle compagnie di taxi, documentato da Wang Keqin a partire dal 2002, portò alla luce i ricatti a cui erano sottoposti gli autisti dei taxi cinesi, costretti dalle compagnie al pagamento di quote per potere lavorare all’interno della compagnia. L’inchiesta sollevò molto clamore e l’attenzione di Zhu Rongji 朱镕基 e Wen Jiabao 温家宝, allora rispettivamente Primo ministro e Vice premier della Repubblica popolare cinese.



Tradotto da Mauro Crocenzi, 02 Aprile 2012