Il racconto appare la prima volta nella raccolta Ragazzo nel crepuscolo. Ha avuto molte ristampe. L’anno scorso è stato riproposto in forma ridotta sul numero 7 della rivista letteraria Yilin. È un racconto che continua a essere apprezzato sia per la narrazione lineare e vivida che per l’umorismo esuberante della storia. Viene considerato un racconto satirico, che attraverso la descrizione dei contrasti tra il mondo degli adulti e dei figli, mette in ridicolo la figura del despota, svelandone le debolezze.
Mio padre è un chirurgo. È un uomo robusto e quando parla la sua voce è forte e chiara. Spesso rimane al tavolo operatorio per più di dieci ore, e quando finisce sul viso non ha il minimo segno di stanchezza. Tornando a casa a piedi, i suoi passi risuonano forti e chiari.
Avevo otto anni. Una volta, uno dei suoi rari giorni di riposo, quel chirurgo così forte portò noi due figli al mare. Tornando a casa, ci portò uno sulla spalla e l'altro in braccio. Dopo cena, era già buio, si sedeva con la moglie e i due figli sotto il platano di fronte casa.
Il chirurgo stava seduto sul letto di bambù, la moglie a fianco su una sedia di vimini. Noi figli, mio fratello maggiore e io, ce ne stavamo spalla a spalla su una panca ad ascoltare nostro padre raccontare di quell'appendice che tutti abbiamo nella pancia.
Raccontava che ogni giorno tagliava almeno venti appendici. Una volta ci aveva messo solo un quarto d'ora. Zac... e aveva tagliato di netto l'appendice a un paziente.
“E che ci si fa dopo averla tagliata?” chiedevamo.
"Dopo averla tagliata?" mio padre agitava la mano, "dopo averla tagliata si butta."
"E perché?"
"L'appendice non serve a un bel niente. Ma se si infiamma, ti fa tanto male la pancia. E nel caso di perforazione si può verificare una peritonite, che ti toglie la vita. Capite che significa togliere la vita?"
Mio fratello annuiva. "Vuol dire morire."
Alla parola morire inspiravo forte. Vedendomi spaventato, mio padre allungava la mano e mi dava uno scappellotto in testa.
"Il taglio dell'appendice è una piccola operazione” diceva. “Non c’è nessun rischio, se non va incontro a perforazione. Una volta un chirurgo inglese..."
Mentre parlava, si allungava sul letto, e noi capivamo subito che stava per raccontare una storia. Chiudeva gli occhi e sbadigliava rilassato, girandosi verso di noi. Raccontava che un giorno quel chirurgo inglese era arrivato su un'isoletta dove non c'erano ospedali né medici, e neanche un armadietto di medicinali. Aveva l'appendicite. Era sdraiato sotto un albero di cocco, aveva sofferto per tutta la mattina. Sapeva che se non veniva operato, l’appendicite poteva essere perforante.
"Quel medico non poté far altro che operarsi da solo. Si fece portare un grande specchio da due abitanti del luogo. Così, di fronte allo specchio, qui - e mio padre indicava la parte destra della pancia - fece un'apertura nella pelle, separò il tessuto adiposo, e ci affondò la mano per cercare l'intestino cieco. Una volta trovato l'intestino, riuscì ad arrivare all'appendice..."
Questa storia straordinaria ci lasciò esterrefatti. Contemplammo emozionati nostro padre, chiedendogli se anche lui sarebbe riuscito a operarsi da solo come quel medico inglese.
"Dipende” rispose. “Se stessi su quell'isoletta e mi venisse l'appendicite, anch’io per sopravvivere potrei operarmi da solo."
Avevamo sempre creduto che nostro padre fosse il più forte, il più straordinario. La sua risposta rafforzò questo nostro 'credere', e ci diede piena fiducia nel vantarci con gli altri bambini.
"Nostro padre sa operarsi da solo!"
"Noi due gli portiamo uno specchio e..." aggiungeva mio fratello.
Un paio di mesi dopo, in autunno, a mio padre venne l'appendicite. Era una domenica mattina, e tornava a casa dopo il turno di notte. In quel momento mia madre stava uscendo per andare a lavorare.
"Stanotte non ho chiuso occhio” le disse sulla porta di casa. “Un trauma cranico, due fratture, un avvelenamento da penicillina. Sono stanco e mi fa un po’ male lo stomaco." Quindi coprendosi la pancia se ne andò a dormire.
Sentendo i lamenti provenire dalla stanza dove dormiva, ci avvicinammo e restammo sulla porta in ascolto. Mio padre ci chiamò. Spingemmo la porta ed entrammo. Nostro padre stava piegato come un gambero e ci guardava facendo smorfie di dolore.
"L'appendice...Ah..mi fa male...appendicite acuta. Correte in ospedale, chiedete del dottor Chen…Va bene anche il dottor Wang..."
Mio fratello mi trascinò sotto casa. Una volta in strada, ci incamminammo nell'hutong, in uno stretto vicolo. A pensare all'appendice infiammata di mio padre, sentivo il cuore martellarmi il petto. Mio padre aveva l’appendicite e poteva finalmente operarsi da solo! Io e mio fratello potevamo portagli uno specchio grande!
Alla fine dell'hutong, mio fratello fermò il passo.
"Non possiamo chiamare il dottor Chen e neanche il dottor Wang", disse.
"Perché?"
"Pensaci un attimo. Se li chiamiamo, opereranno papà. Non possiamo chiamarli! Andiamo in ospedale e rubiamo una borsa con i ferri chirurgici, e anche uno specchio grande, che a casa non c'è..."
Andammo in ospedale e rubammo la borsa. Tornati a casa, mio padre ci sentì entrare, e con voce debole chiamò: "dottor Chen, dottor Chen...O è il dottor Wang?"
Entrammo. Nostro padre aveva le sopracciglia inondate di sudore.
"E il dottor Chen? Com'è che non è venuto?" gemette, vedendo che non era né il dottor Chen né il dottor Wang.
Mio fratello mi fece aprire la borsa, mentre lui portava dentro lo specchio.
"E il dottor Wang? Non c'era neanche il dottor Wang?" , domandò nostro padre, non capendo le nostre intenzioni.
Misi la borsa coi ferri a lato di mio padre, mi arrampicai sul letto, mentre mio fratello all'altro lato sistemava lo specchio. Si piegò addirittura in avanti per controllare che nostro padre potesse vedersi chiaramente nello specchio. Quindi eccitati, verso nostro padre: "papà, fai presto!"
Ansimando mio padre ci guardava, continuando a chiederci del dottor Chen e del dottor Wang. Eravamo impazienti.
"Papà, sbrigati, altrimenti l’appendice subisce una perforazione!" gridammo.
"Presto…cosa...?" chiese debolmente.
"Papà, operati da solo!"
Finalmente mio padre capì. Spalancò gli occhi.
"Bestie!", ci insultò.
Mi spaventai, non capivo in cosa avevamo sbagliato. Guardai mio fratello, spaventato anche lui. Lui capì subito perché mio padre imprecava: "Papà ha ancora i pantaloni addosso!" .
Mio fratello mi fece tenere lo specchio e allungò la mano per sfilargli i pantaloni. Mio padre mi diede uno schiaffo.
“Bestie!” imprecò di nuovo.
Spaventato mio fratello sgusciò fuori dal letto, e io mi affrettai a fare lo stesso… Eravamo in piedi tutti e due, a guardare nostro padre sul letto, stremato e infuriato.
“Forse papà non vuole operarsi?” chiesi a mio fratello.
“Non lo so” rispose.
“Figliolo, vai a chiamare la mamma…” disse mio padre singhiozzando tra le lacrime.
Speravamo che nostro padre fosse un eroe che si operava da solo. Invece piangeva. Restammo per un po' in piedi imbambolati e quindi uscimmo di corsa...
Quando portarono nostro padre in sala operatoria, era già in corso la perforazione dell’appendice. Ebbe una peritonite e fu ricoverato in ospedale per più di un mese. E poi un altro mese di convalescenza a casa, prima di indossare di nuovo il camice bianco.
Da allora, lo udimmo spesso lamentarsi con nostra madre: "Dici che mi hai dato due figli, ma in realtà hai partorito due appendici. Non servono a niente, ma nei momenti critici fanno così male che quasi ci rimettevo la vita.”
Tradotto da
Lucia De Carlo, 31 Marzo 2012
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