Rivolte dei gelsomini, primavera araba, indignados, occupazione di Wall Street.
A scapito delle distinzioni e delle letture critiche approfondite, sono in molti - dall’Occidente alla Cina - ad avere evidenziato un filo conduttore interno a questi fenomeni, rappresentato dalla funzione popolare e dalla voglia di rinnovamento espressa nei diversi movimenti.
In Cina ben pochi hanno speso parole sui fatti di Roma dello scorso 15 ottobre, ma in parecchi si sono soffermati sulle iniziative degli “indignati d’oltre-oceano” entrati sulle prime pagine dei media internazionali con la pacifica occupazione di Wall Street. Sulla rete molti interventi hanno suggerito che il malcontento popolare non è prerogativa dei presunti regimi dittatoriali, ma è ben vivo anche nelle “oasi” dei paesi civili e democratici. E che le distanze tra Stati Uniti, Medioriente e – indirettamente - Cina forse non sono così incolmabili come sembra ai più.
Yang Hengjun è un opinionista che non ha mai nascosto la sua ammirazione per la democrazia e i suoi valori, temi che sono spesso al centro delle analisi sul suo blog. Per via dei suoi ideali, Yang è un soggetto molto spesso chiamato in causa all’interno del dibattito politico-sociale attivo sulla rete cinese da circa un decennio, tra i sostenitori della scuola di pensiero liberale e gli orientamenti più radicali dell’ultrasinistra e dei nazionalisti, entrambi diffidenti – sebbene per motivi diversi - verso il criticismo diretto contro il sistema cinese dai media e dall’opinione pubblica occidentale.
In questo post del 7 ottore 2010, di cui oggi vi proponiamo la prima parte, Yang interviene nel confronto a difesa di quella stessa democrazia che i recenti fatti di protesta sembrano mettere in discussione, affermando il valore della dimostrazione come momento essenziale dell’idea stessa di democrazia e per nulla in antitesi con essa.
I messaggi dei lettori:
Lettore n° 1:
Egregio Yang, il popolo americano finalmente si è risvegliato, non è più soddisfatto della sua finta democrazia e vuole metterla da parte. Come mai [sul suo blog] non ho trovato neanche un post su “Occupy Wall Street”? Hai forse paura di parlarne?
Lettore n° 2:
Maestro Yang, “Occupy Wall Street” mi ha lasciato molto perplesso. Gli Stati Uniti non hanno il migliore sistema democratico del mondo? Perché le masse scendono ancora in piazza? È davvero possibile che la democrazia porti al disordine?
Lettore n° 3:
Vecchio Yang, in Cina c’è chi dice che “Occupy Wall Street” possa essere considerato il proseguimento della “Rivolta dei gelsomini” in Medio Oriente. Questa tesi è molto suggestiva, tu che ne pensi?
In questi giorni ho ricevuto molte richieste dai lettori (ci sarebbero anche i lettori n° 4, 5, 6, 7, 8...), che mi chiedono cosa penso di “Occupy Wall Street” negli Stati Uniti. Poiché le vacanze sono appena concluse (1) e i lettori non hanno voglia di leggere post troppo lunghi, cercherò di fare una presentazione generale, proponendo semplicemente degli spunti di riflessione e di analisi.
Quello di manifestare è uno dei diritti di base delle masse, un diritto che non solo è sancito dalla Costituzione americana, ma anche dalle costituzioni della maggioranza dei paesi al mondo. Malgrado la democrazia abbia assicurato agli americani il diritto di voto e quello di opinione, nella breve storia degli Stati Uniti – circa 235 anni - le manifestazioni di protesta non si sono mai estinte. Al contrario, sono sempre state più frequenti rispetto agli altri paesi, vuoi per proporzioni vuoi per durata. Ci sono netizens che mi scrivono che le dimostrazioni su grande scala avvenute recentemente negli Stati Uniti indicano il fallimento di una democrazia incapace di conquistare i cuori della gente. A queste persone voglio dire: quello che è accaduto è proprio indice di democrazia.
Quali sono le richieste politiche ed economiche della protesta di Wall Street? In termini generali si tratta dell’insoddisfazione americana – e in particolare di una gioventù marginalizzata - verso la rapacità del capitalismo, verso la crescita del divario fra ricchi e poveri, verso la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e verso le buone predisposizioni del governo nei confronti dei ricchi.
All’inizio si sono mobilitati solo studenti giovani, lavoratori disoccupati o persone dal basso tenore di vita, poi però la protesta si è estesa molto velocemente a persone di diversa estrazione. Ad ogni modo non importa quante persone abbiano partecipato alle dimostrazioni, quello che importa è che l’assoluta maggioranza dei partecipanti non si è opposta al governo, non lo ha invitato ha farsi da parte, né – tantomeno - ha manifestato la volontà di modificare il sistema democratico. Le posizioni dei dimostranti erano in tutto e per tutto ispirate dai valori fondanti della nazione americana: il diritto individuale, l’imparzialità e la giustizia.
Per questa ragione abbiamo assistito a uno strano fenomeno. Mentre in alcuni paesi allo scoppio dei disordini si è verificato uno scontro tra il governo e gli altri strati della popolazione, negli Stati Uniti invece sia l’opposizione repubblicana sia i democratici non si sono nascosti; alla fine persino il Presidente Obama è uscito allo scoperto e ha espresso la propria simpatia e comprensione per la folla in protesta, criticando l’avidità di alcune persone che si sforzano di ostruire la riforma del sistema finanziario. Il Presidente ha quindi ribadito il suo riformismo, con il risultato di spingere l’opposizione ad ascoltare le rivendicazioni della popolazione.
Che alcuni lettori, alludendo alle problematiche generate dalla democrazia americana, abbiano provato a mettere in imbarazzo quel “venditore di democrazia” che sono, è un fatto del tutto insignificante. Solo quando il sistema democratico non genera problemi, è un brutto segno per la democrazia. Ho scritto diversi articoli di critica al sistema democratico americano, l’ultimo circa due mesi fa, quando mi sono recato per un convegno a Washington D.C. e ho scritto “A passeggio davanti alla Casa Bianca, alcuni suggerimenti per Obama” (2).
In quell’occasione scrivevo che la democrazia americana lasciava emergere una certa “stanchezza” e, sebbene il punto di partenza della mia analisi fosse rappresentato solo da un paio di mie esperienze personali, in realtà mi rendevo bene conto dell’esistenza di problemi più seri. Ma io sono convinto del fatto che - all’interno di questo sistema - gli americani non possano rimanere seduti a guardare. Non ho bisogno di sprecare tempo ed energie per conoscere i problemi che esistono nella democrazia americana, mi sta molto più a cuore l’emergere di questi problemi all’interno di paesi privi di democrazia.
[...]
[La seconda e ultima parte della traduzione sarà pubblicata venerdì 18 novembre]
(1) Il post risale al 7 ottobre, termine della settimana di festa nazionale per la fondazione della Repubblica popolare cinese. (2) Il post in lingua originale è consultabile all’indirizzo http://yanghengjunbk.blog.163.com/blog/static/45964193
Tradotto da
Mauro Crocenzi, 16 Novembre 2011
Vignette
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