Circolo vizioso


2011 Nov
25

Circolo vizioso
恶性循环 di Shi Kang ( 石康 )


L’articolo è tratto dal contributo di Shi Kang a Party, Un coro di assoli, la rivista lanciata da Han Han nel 2010 e chiusa dopo solo un numero. Non si è trattato proprio di collaborazione, quanto più di una serata a giocare a biliardo per ammazzare il tempo, ci racconta Shi Kang. Si trattava di supportare un amico che stava mettendo su una rivista. Inizialmente volevo usare una parte del mio romanzo "Utopia di lotta". Ma il libro è uscito prima che Party passasse la censura. Poi un giorno Han Han mi avvisa che stavano raccogliendo gli articoli, e che il giorno dopo dovevo mandargli il pezzo. Così ho scritto "Dove guardi?!" (看哪,这人 kan na, zhe ren) in una notte. Il testo originale doveva essere pubblicato in tre numeri, poi Party è stata chiusa.

Quando ho imparato a giocare a tennis con mio padre, lui aveva sessantotto anni, io trentotto. Io ho imparato subito il diritto mentre lui, ancora dopo tre anni, no. Non ne capivo il motivo, e lui ogni volta ribadiva questioni legate all’età. Poi ho compreso che lui non si era minimamente mai sforzato di studiare quel colpo. Si limitava a provarlo quell’ora che passava ogni giorno sul campo. Continuava a ripetere  i movimenti del ping pong. Ma nessuno gli aveva neanche mai insegnato a giocare a ping pong, quindi anche quei movimenti erano improvvisati. Andava avanti con quello che istintivamente riteneva potesse bastare. Naturalmente i suoi movimenti erano laboriosi e innaturali, per non parlare dell’equilibrio, e ancor più, del controllo palla. Per lui si riduceva tutto a mantenere un cosiddetto movimento di base. Quando si trovava la pallina di fronte era così teso che non faceva in tempo a muoversi; si sforzava semplicemente di respingere la palla nell’altra metà campo.

La cosa divertente è che all’inizio anch'io ero caduto in questo circolo vizioso. Quando uscivo dal campo, però, studiavo i movimenti cercando di capire dove e perché avevo sbagliato. Compravo libri e osservavo i colpi degli altri. Riprovavo i movimenti da solo fino a diventare sempre più preciso.
Mio padre aveva iniziato con l’obbiettivo di mantenersi in forma. L’istruttore aveva notato che era molto agile e che aveva sensibilità per la pallina, ma i suoi movimenti erano sbagliati e insicuri. Sbagliava sempre. Il punto era che sbagliava sempre nello stesso punto, ma non lo correggeva. Se gli facevi notare che sbagliava, si agitava subito. Gli piaceva solo ricevere dei complimenti. Se gli dicevi che nonostante l’età sapeva giocare a tennis era subito contento. Non si preoccupava mai di come migliorare. Aspettava che mi svegliavo per andare a giocare insieme ma, poiché miglioravo, giocare con lui diventava uno sport noioso. Vedevo una macchina che si ripeteva e non una persona che voleva divertirsi facendo sport. Non mi restava che cambiare prospettiva e pensare al legame familiare. Pensavo che comunque gli faceva bene giocare insieme.

Questo processo si è ripetuto con la mia ragazza di allora. Era più giovane di me, agile e aveva un buon fisico, ma era in tutto uguale a mio padre.

Ho visto troppe persone che usano ogni sorta di scusa per spiegare la mancanza di entusiasmo nelle cose. Non investono tempo e energie, e si limitano a improvvisare. Le cose che fanno non scaturiscono da una passione. Non le vedono come una sfida, come un superamento delle difficoltà per far bene qualcosa. Non credono minimamente di poter riuscire. Sono così abituati a questo modo di pensare che se vuoi aiutarli, provochi solo una ritorsione psicologica.

Alla fine, mio padre si dileguava appena si accorgeva che volevo insegnargli il tennis. Io naturalmente ero disposto a giocare, ma dovevo stare al suo ritmo, alla sua meccanica ripetizione. Giocava in modo laborioso e irrazionale, sprecando un’eccessiva forza fisica. Aveva un’energia che gli avrebbe permesso di giocare per due ore, ma in quel modo dopo mezz’ora era già stanco. Da quel che vedevo, bastava migliorare un po’ la tecnica per rendere tutto più divertente. Ma lui no, continuava a ritenere il tennis troppo difficile, impossibile da imparare. E insisteva anche con l’età, ‘non devo mica diventare campione del mondo, a che serve giocare bene?’

Non aveva pensato che, se una cosa non la porti avanti, significa la fine.
Non appena si entra nello stato di macchina, anche se scompaiono le difficoltà, le cose ristagnano. E le macchine ci hanno già sostituito.
Siamo esseri dotati di conoscenza, e a maggior ragione dobbiamo usare il libero arbitrio, o quello che chiamano spirito di iniziativa, per dare valore e significato alla nostra vita.

Tradotto da Lucia De Carlo, 25 Novembre 2011
 



altri articoli dello stesso autore
1 2