La dottrina dell’adattamento


2011 Nov
23

La dottrina dell’adattamento
接受主义 di Shi Kang ( 石康 )


Shi Kang è tornato da poche settimane a Pechino dopo un viaggio di dieci mesi negli Stati Uniti. Ho viaggiato in macchina per sessantamila chilometri, ho raggiunto tutti i posti che potevo, città, paesi, campagne. Ho viaggiato per dieci mesi, ora rieccomi a Pechino, ci racconta Shi Kang, a cui abbiamo chiesto di condividere le impressioni sugli States e cosa pensa un cinese dell’american dream. Il sogno americano è la ricompensa per quello che hai investito.  È giustizia, libertà, impegno. Naturalmente la società non funziona così, neanche in America. Per molti americani il sogno americano è irrealizzabile, ma ci sono dei piccoli gruppi che sono riusciti a realizzare il loro personale sogno americano. Ce l’hanno fatta. Penso che è il sistema più intelligente realizzato dagli americani. Io sono cinese, non posso produrre alcun sogno americano.

Il post tradotto è stato scritto da Shi Kang subito dopo il suo arrivo negli Stati Uniti. Parla di città, delle diverse impressioni su Pechino e su New York e di come la gente vive le trasformazioni urbane e la vita sociale.




Il motivo per cui gente come me non può fare a meno di scrivere in modo confuso e arzigogolato - pur tentando di esprimersi con chiarezza -  è che in Cina molte cose non si possono dire. I cinesi prestano più attenzione al ruolo che si riveste quando si parla che alla persona. Quello che vediamo sono tanti ruoli che si esprimono in nome di se stessi. Che differenza c’è? La differenza è che [qui] in Cina è il ruolo che si riveste a stabilire se alcune persone hanno o no il diritto di dire certe cose. Altri, molto probabilmente non del campo, le possono dire.

L’umanità ha inventato il linguaggio per migliorare la comunicazione, ma i cinesi appartengono a un’altra specie. Quando i cinesi hanno creato la lingua, hanno inventato anche le regole per cui non è permesso usarla. Queste regole creano una certa tensione quando i cinesi si esprimono. L’umanità usa la lingua per riflettere. Da qui si evince che i cinesi, anche quando pensano sono nervosi. Questo nervosismo influenza pesantemente l’efficacia del ragionamento e, di conseguenza, l’azione che ne scaturisce. Insomma, i cinesi sono costretti a vivere nell’inefficienza. Niente di più deprimente! Se guardo indietro ai miei quarantadue anni di vita,  mi sento contorto e schiacciato.

Un tempo mi sono impegnato per diventare uno ‘scrittore pechinese’. Volevo che al solo nominar Pechino si pensasse a me. All’epoca vivevo a Dong Gaodi (1) e passavo il tempo a leggere e scrivere. Gli amici mi prendevano in giro, ma ‘Dong Gaodi non è Pechino’. Non li prendevo seriamente. Per me Pechino e New York erano uguali: tutte e due città sfavillanti. New York mi esaltava perché gli scrittori newyorkesi sapevano scrivere bene della loro città. Ero convinto che bastava impegnarmi con la scrittura perché anche le macerie di Pechino potessero riempirsi di nuova vitalità.

Sono passati tanti anni, il mondo legge ancora scrittori newyorkesi e i creativi si emozionano ancora per New York. Invece Pechino è rimasta uguale; solo gli idioti e i disonesti riescono ancora ad emozionarsene. Allora mi rilasso e cambio la mia affermazione in ‘Pechino è Pechino, New York è New York’.

Ora mi è chiaro. Non sono gli scrittori di New York che sanno scrivere meglio della loro città: è New York che sa suscitare interesse nei suoi scrittori.

Anche Pechino ha i propri nomi noti. Se si è disposti a perdere un po’ di tempo a leggerne i profili, si viene colti dalla stessa amarezza che prende me. Sono quasi tutti oppressi e schizofrenici, non ce n’è uno che si possa considerare felice. Sono sopravvissuti una vita a Pechino. Molti si stanno spegnendo senza neanche accorgersene. Eppure anche loro, una volta, assomigliavano a me: un pechinese entusiasta.

Un giorno stavo sfogliando delle foto al computer e mi sono perso a pensare al contrasto tra la Statua della Libertà e le steli commemorative della Città Proibita. Potevo non deprimermi?

Oggi non mi interessa più diventare uno ‘scrittore di Pechino’. Questa città mi fa schifo. Quando esco di casa, prendo la macchina e resto bloccato nel traffico del secondo anello. Allora mi appoggio al volante e sogno a occhi aperti. Immagino di essere un contadino della campagna americana che sudando solleva la testa a guardare il cielo blu e le nuvole. È un pensiero che mi dà una strana consolazione, riesco persino a non sentire il notiziario del traffico alla radio. Non ci avrei creduto se qualcuno me lo avesse detto venti anni fa.

Perché si indebolisce l'amore per il proprio luogo di nascita?

A Pechino sento l’odore della corruzione. Qui si aggirano troppi mostri millenari; a sbandierare è l’autorità, e i pechinesi non possono che essere nervosi. Dalle prime luci dell’alba devono correre sotto l’autorità - e tutti ne sentono la ferocia - non credono alle lacrime e disprezzano il rispetto e la premura per gli altri. La libertà altrui è una spina nel fianco. C’è stato un momento in cui pensavo che per essere felici qui bastava essere spietati e senza cuore. Mi sbagliavo. La crudeltà e la felicità sono due cose distinte e separate.

Oggi ho eliminato l’immagine della statua della Libertà dal computer. Forse ora che sto a New York riesco a sentire più chiaramente cosa provo per Pechino. Accetto il destino di essere un pechinese, ormai ne sono plasmato.

È come imparare una serie di azioni sbagliate del tennis e poi volerle correggere: è più difficile che per un principiante.  La mia realtà è questa, ma quando lo realizzo mi prende un’amarezza e uno sconforto profondi.

Va bene, non posso che diventare un fautore della dottrina dell’adattamento. Voglio dire, accettare tutto con cautela. Ma perché lo vedo negli altri, non perché lo comprendo.

(17 febbraio 2010)

(L'immagine di copertina è tratta dal blog di 只是分子 Zhishifenzi, un 'fumettista atipico', come si definisce il disegnatore di base a Canton.)

(1) quartiere del distretto Fengtai 丰台区, situato nella parte sud di Pechino.



Tradotto da Lucia De Carlo, 23 Novembre 2011