Com'è la vita quotidiana nella società uigura di Hotan? Come hanno vissuto i trent'anni di Riforme e apertura, la rapida modernizzazione e la trasformazione da tradizionale società contadina a società industriale e dell'informazione? Phoenix Weekly pubblica il racconto del fotografo Kurbanjan Samat, cresciuto in una famiglia tradizionale uigura di Hotan, nel sud dello Xinjiang.
Kurbanjan: non voglio che mio fratello resti a Hotan
Il più piccolo dei miei fratelli non ha portato a termine le scuole superiori. Questa era la maggiore preoccupazione della mia famiglia. Nel 2007, dopo appena un anno di scuola superiore, ha lasciato la scuola e ha cominciato a frequentare altri ragazzi. Mio padre voleva che pensassi a una soluzione: "è pericoloso che tuo fratello resti nell'ambiente di Hotan, deve andare a scuola". Così gli avevo chiesto: "cosa vuoi studiare? Vieni a Pechino e potrai studiare quello che vuoi". Ma lui non aveva intenzione di lasciare Hotan per niente al mondo. Aveva detto a mio padre: "Hotan è tua? Dovrai picchiarmi a morte, infilarmi in una valigia e spedirmi fuori da qui perché lasci Hotan."
Nessuno di noi osava rivolgersi in questo modo a nostro padre. Questo ci aiuta a capire quanto i giovani di Hotan fossero influenzati dall'ambiente. Il carattere e il modo di fare di mio fratello erano inconsapevolmente influenzati dagli amici che frequentava. Secondo lui le preoccupazioni di nostra madre erano ingiustificate. Io ho le mie idee ma lui era piuttosto confuso.
Una volta, tornato a casa nel cuore della notte, mio padre gli aveva mollato un ceffone e lui se ne era andato. La sera non era ancora tornato. Mio padre mi aveva telefonato perché allora mi trovavo a Shanghai. Non riuscendo a tranquillizzarmi, avevo telefonato a un mio amico dell'ufficio di pubblica sicurezza. Dovevamo trovarlo a ogni costo e chiuderlo direttamente in carcere, perché si facesse un esame di coscienza. Non beveva e non fumava, passava le giornate con gli altri ragazzi, non aveva interessi né passatempi, non voleva studiare niente. Per fortuna alla fine del 2007 un amico della regione del Sichuan aveva aperto uno studio fotografico a Hotan. Lo mandai lì. Fotografia, luci o post produzione: che facesse quel che gli piaceva di più. Volevo che si interessasse a qualcosa, che si distraesse un po'. Si interessò alla gestione della post produzione e riusciva a non alzarsi dalla sedia per otto, nove ore.
Dopo "i fatti del 5 luglio" 2009 però, vennero fuori dissapori tra i ragazzi del personale. Nello studio erano tutti di etnia han tranne lui. In realtà si trattava di piccoli motivi di contrasto. Una volta stavano ascoltando musica e un ragazzo han aveva messo Jay Chou. Mio fratello, cui piacevano i Beyond, aveva cambiato musica. Quell'altro aveva smesso di lavorare e aveva detto: "tu, razza di turbante", rimettilo". "Cosa hai detto?!" gli aveva risposto mio fratello, buttando a terra il bicchiere d'acqua. Da una questione così banale era nato uno scontro etnico.
Il mio amico aveva cacciato il ragazzo han e sgridato mio fratello. Il ragazzo, ritenendo che la questione non fosse stata affrontata in modo equo e che il ragazzo uiguro fosse stato favorito, volle distruggergli lo studio. Mandò più di venti tipi al negozio, che bloccarono la porta per picchiare mio fratello. Il mio amico fece pressioni su mio fratello per non farlo andare via. Ma lui intanto aveva già telefonato a cinque uiguri dicendogli di accorrere. Pensate, subito dopo "i fatti del 5 luglio" erano ancora i ragazzi a radunarsi. Tremendo! Il mio amico non aveva ancora reagito e si vide arrivare un gruppo di giovani uiguri: non sapendo cosa fosse successo, si era affrettato a telefonarmi. Mi agitai e gli dissi di non fare assolutamente niente, di chiamare subito la polizia e di non far andare via mio fratello. Conoscevo il suo carattere, se fosse uscito avrebbe di sicuro fatto a botte. Dopo l'allarme, erano arrivate delle persone dall'ufficio di sicurezza e li avevano presi tutti in custodia. Solo così poté essere evitato una rissa.
Non era più il caso che lui restasse a Hotan, altrimenti prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave. Quel mio amico mi disse: "tuo fratello ha imparato molto, ma assolutamente non devi farlo restare qui nell'ambiente di Hotan. Fagli vedere il mondo". Gli telefonai e lo minacciai. Gli dicevo che il fatto era gravissimo e che avevo già comprato un biglietto aereo per lui. "Domani vai a Shenzhen, ti ho trovato un posto, potrai studiare lì". Arrivato a Shenzhen, chiesi al io amico dell'ufficio di pubblica sicurezza di garantire per lui. Disse infatti al negozio che si sarebbe assunto lui la responsabilità di qualunque cosa fosse successa. In un primo momento non riuscì ad abituarsi a Shenzhen. Ma quando, sei mesi dopo, tornò a Hotan, restò solo tre giorni: non era più abituato. "Ho sprecato vent'anni a Hotan, preferisco tornare a Shenzhen, è molto meglio". Testuali parole.
Ora lavorava in uno studio fotografico specializzato in matrimoni che andava molto bene. Parlai col suo responsabile, gli volevano bene, lo chiamavano "Mohamed". Era serio e aveva una sensibilità particolare per i colori. A Hotan non c'era molto verde. Tutto per lo più era di un giallo caldo come la sabbia, un colore che riusciva a padroneggiare bene.
Mio fratello andava d'accordo con gli altri. Su varie migliaia di persone dello studio, era l'unico appartenente a una minoranza etnica, l'unico xinjianese. L'anno scorso, in occasione della riunione annuale di inizio anno, l'azienda aveva affittato uno stadio intero. Per lui fu una grande emozione. L'azienda si chiamava "Eterno come l'universo" e lui diceva di essere eterno. Gente che non aveva mai avuto contatti con gli xinjianesi e che lo conosceva, pensava che gli xinjianesi fossero brave persone.
Ora tutti lo conoscevano in azienda, il suo modo di agire l'aveva fatto accettare dagli altri. Gli chiesi se voleva ancora tornare a Hotan. Rispose di no. "Mi piace Shenzhen, maturerò qui." Pensava che Shenzhen fosse molto accogliente, che bastasse avere delle capacità per essere accettati. In realtà non esistono persone cattive, dipende da come vengono indirizzate. Bisogna trovarne i punti di interesse e guidarli pian piano. Ora era completamente diverso dagli amici di Hotan, sia nel modo di vestire che nell'affrontare le cose. Mio padre si tranquillizzò.
La difficoltà per un uiguro di avere un passaporto
La politica non mi interessa. Quando sono andato in Turchia e negli Stati Uniti, i miei amici erano preoccupati degli agitatori che ci sono all'estero. Mio padre mi aveva insegnato a non nuocere alla società, a non entrare in contatto con gente dalle idee estreme. Soprattutto dopo essere arrivato a Pechino e quando le possibilità di andare all'estero erano aumentate, mio padre continuava a dirmi di non fare amicizia con gli stranieri. Perché non capiscono molte cose cinesi, soprattutto riguardo lo Xinjiang. come possono gli stranieri capire quello che neanche i cinesi capiscono? Molti inventano cose inesistenti, ingigantiscono minuzie e ne fanno strategie per tirare a campare. "Non ti mischiare con loro, fatti i fatti tuoi."
Posso capire che non sia facile ottenere un passaporto. Se uno vuole uscire, studiare, fare affari e quindi tornare, non c'è problema. Ma alcuni appena escono dicono sciocchezze tali che viene voglia di insultarli.
A Shenyang mi è successa una cosa. Era l'anniversario dei 60 anni della Repubblica e non mi permettevano di trovare una sistemazione. Erano arrivati dei poliziotti dall'ufficio locale di polizia e gli avevo detto che ero membro dell'albergo, che avevo già prenotato una stanza e che non capivo la ragione per cui non potevo stare lì. Dopo una discussione durata più di due ore, alle tre mi avevano permesso di andare a dormire. Il giorno dopo volevo andare su internet, ma il ragazzo dell'internet point qunado vide la mia carta di identità mi disse senza neanche alzare la testa: "scusa, il tuo gruppo etnico non può navigare online".
Così scrissi un 'articolo: "gli xinjianesi sono benvenuti in tutto il paese". Non mi aspettavo di ricevere, solo due settimane dopo, l'avviso che l'articolo era diventato molto popolare e che dovevo fare attenzione. Capii che qualcuno l'aveva messo online. Tornai a casa e controllai la mail. Era quasi piena: più di 300 messaggi, alcuni di media di paesi che non avevo mai sentito nominare che volevano intervistarmi. Restai di stucco e ebbi anche paura. Stava mica per succedere qualcosa? Telefonai al mio padre adottivo e gli dissi che avrei voluto mandarli a quel paese. "Cosa?", mi rispose. "Li sottovaluti. Non fai a tempo a dirgli una parola che è già diventata un romanzo".
Mi scombussolava anche il fatto che mi proponessero di essere intervistato a Hong Kong, in Francia o in Germania. Non gli importava che non avessi il passaporto, ci avrebbero pensato loro. Potevano anche farmi diventare cittadino tedesco, le sapevano tutte. Eliminai alcuni messaggi senza neanche leggerli o dandogli solo un'occhiata. Poi per due giorni non andai online. Dopo sei mesi, un mio amico tornò dagli Stati Uniti e mi disse che lì aveva visto il mio articolo e che il titolo era stato cambiato in "scusa, il tuo gruppo etnico non può andare online".
Per girare il documentario "Via della seta, un viaggio che ricomincia" [prodotto dalla Cctv nel 2013] bisognava fare il passaporto. Preoccupato che non sarei riuscito a fare tutte le pratiche, dissi che non ci sarei andato. Ma il regista mi ricordò che ero il cameraman e che senza di me non avrebbero potuto girare. Così lo facemmo.
Per prima cosa la società di produzione del documentario presentò una lettera di referenze al Dipartimento di propaganda del Comitato di Partito dello Xinjiang. Questo rispose che bisognava scrivere all'Ufficio di pubblica sicurezza di Hotan e farsi fare un documento. Solo così avrei avuto i requisiti per poi compilare il modulo di richiesta. Tale modulo doveva poi avere il timbro dell'ufficio di polizia locale e doveva essere firmato e timbrato da tre persone.Il problema era che non riuscivo a trovare nessuno. Quando alla fine trovai il direttore dell'ufficio, mi disse che non andava bene. Avrei dovuto scrivere una lettera di referenze. Tornai il giorno dopo: non c'era nessuno e me ne andai. Aspettai ancora un giorno. Ci tornai l'indomani e il giorno dopo ancora. Dopo una settimana, e molto di controvoglia, il direttore dell'ufficio mi firmò il documento.
La firma non bastava. Il mio hukou [permesso di residenza he viene dato alla nascita] era di Hotan quindi dovevo completare [il documento] con la firma di un vice segretario. Fu molto complicato, mi disse: "non va bene perché sei uiguro." Che motivo è? Ero così demoralizzato! Per la firma ci vollero due giorni interi. Una volta ottenuta, la diedi all'Ufficio di pubblica sicurezza. Dopo due settimane arrivò il passaporto. Per ritirarlo mi dissero che dovevo depositare una caparra di 50mila yuan alla Commissione per gli affari etnici e religiosi. Non ero disposto a sborsare quella somma. Gli spiegai che si trattava di una trasferta di lavoro e dissi loro che la richiedessero alla produzione. Telefonarono ai nostri capi. La produzione non sapeva cosa fare e si accordò con loro per non pagare quella somma. Venne fuori una quinta certificazione. Mi recai quindi al governo della municipalità di Hotan per avere la firma del vice sindaco e della Commissione per gli affari etnici e religiosi. Solo così l'Ufficio di pubblica sicurezza di Hotan mi diede il passaporto. Quando ritirai il passaporto mi chiesero di scrivere quando sarei tornato. Dissi che non potevo saperlo. Uscendo spesso dal paese, non sapevo quando sarei dovuto uscire di nuovo. Nel corso di queste pratiche, qualcuno era anche andato a casa mia per mettere pressione a mia madre. L'avevo consolata, "non temere, lo Xinjiang di oggi non è più quello di una volta".
Anche al mio terzo fratello capitò una cosa simile. Dopo quattro anni a Shenzhen, voleva andare a Hong Kong ma non era riuscito a ottenere il lasciapassare. Per una cosa così semplice, dovette correre all'ufficio di polizia una decina di volte. Ogni volta si sentiva ripetere "oggi non c'è tempo, torni domani".
[foto: Kurbanjan Samat]
Tradotto da
Lucia De Carlo, 27 Maggio 2014
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