La tesi Modelli di vita: Proposta di traduzione e commento di sette capitoli di un romanzo di A Yi, curata da Fulvia Difonte è un viaggio nell’interiorità di uno dei più interessanti autori contemporanei cinesi. La tesi è ispirata dal secondo romanzo di A Yi, un’autobiografia romanzata, i cui protagonisti si identificano nell’autore stesso e nel suo compagno di scuola e di lavoro Zhou Qiyuan. La morte dell’amico spinge A Yi a scrivere questo romanzo come per rendere omaggio a lui e alla sua vita che l’autore stesso definisce solitaria. Caratteri cinesi pubblica la traduzione del settimo capitolo dell'opera.
Me ne andai di casa dall’estate 2002 quando avevo 26 anni, dopodiché viaggiai a Zhengzhou, Shanghai e Guangzhou. Erano tre città solitarie, o affittavo un appartamento in periferia o in un ghetto, mangiavo nei fast food, mi spostavo con i mezzi pubblici, usavo i bagni pubblici. Per ogni città che lasciavo davo la colpa a una donna. Ora di loro ricordo solo qualche dettaglio: la loro pelle bianca e delicata tanto da far trasparire le vene verdi, le mutandine grandi come un pugno stese sul davanzale o il suono della pioggia notturna illuminata da una luce forte quando le incontravo.
Dopo tre settimane di convivenza, se ne andò di corsa. Le telefonai, un’ora prima la imploravo in modo patetico, un’ora dopo la minacciavo brutalmente: cosà farò, come lo farò, lo farò. Più tardi, mentre leggevo Esercizi d’amore di Alain De Botton, capii che questo era “terrorismo romantico”. Lei si scusò, ma alla fine io riagganciai il telefono seccato. Presi uno sgabello andando verso il balcone colto dalle vertigini e stordito, salendo sopra vedevo giù, e subito mi cominciarono a tremare gambe e piedi. Una persona che camminava tranquilla di sotto sembrava aver premonito qualcosa, alzò la testa, spalancò la bocca, urlò senza che gli uscisse la voce, dopo si mise a correre come una gazzella impaurita. Naturalmente non morii.
Nel 2004, il mio amico A Ding mi chiamò per andare a Pechino. A quel tempo, la situazione del giornale di Pechino era la seguente: dopo il tirocinio bisognava ancora definire l’assunzione di ruolo o meno. A Guangzhou il direttore del primo posto di lavoro mi aveva promesso di farmi lavorare come redattore capo. Con una valigia in pelle di libri e una di dischi presi il treno per Pechino. Affittai la casa in cui abitava A Ding, dormivo ogni giorno fino a mezzogiorno su un pavimento di cemento liscio, con la vita e la schiena doloranti ascoltavo Guxiang di Xu Wei, dopodiché seguendo A Ding attraversavo Via Nanheng, mangiavo carne d’asino arrosto e andavo al giornale.
A volte, nel weekend, mi facevo un giro a Wangfujing, le mie dita sembravano spazzoline che puliscono giacche a vento cinesi o straniere di colori diversi, rosso, nero, bianco, grigio, come un oste che vede turisti provenienti da ogni parte del mondo che parlano diversi dialetti. Poi andavo al nuovo mercato di Dong’an a vedere un film. Nel mio paese il cinema era ormai diventato una sala per conferenze, alcune volte reclutava qualche piccolo gruppo teatrale che eseguiva danze sensuali, e alla fine era stato demolito silenziosamente. Non desideravo più tornare a casa per dimostrare qualcosa. I loro discorsi erano stereotipati: “Ammiro il tuo coraggio”, ma un giorno un mio amico disse che era un altro modo per dire: “Tutti in realtà ti considerano uno stupido.” Ero arrabbiato e pensavo di non considerare più questo mio paese in rovina. Dopo essere tornato a casa, vedevo questa cosa come il dovere di completare un lavoro, sopportavo, ero paziente, stavo qualche giorno e poi me ne andavo. Mio padre mi disse: “Andiamo a farci un giro, così tanti vecchi compagni, non c’è niente di male nel vivere bene la vita!” Uscii di casa per andare a giocare alla sala giochi per qualche ora. Gli sguardi della gente del posto erano inquisitori, dai vestiti e dal cellulare indovinavano che io avevo ricchezza e una posizione. Giudicavano attentamente, ma mi dovevano ancora chiedere:
“Hai comprato una casa, una macchina, ti sei sposato?”
“No, no, no.”
Accarezzandomi le spalle mi dicevano: “Fratello, non sei più così giovane.”
Un giorno, ebbi un incubo: sotto pressione, non essendo riuscito a oppormi, avevo acconsentito a tornare a vivere nella città di contea. Mio padre era sorridente come un bambino e diceva: “Alla fine sei tornato.” Io ero cupo, sembrava che Pechino avesse chiuso per sempre la sua porta d’ingresso. Miei vecchi colleghi e amici mi venivano a trovare, dicendomi che avevo fatto bene, avevo fatto bene, a tornare avevo fatto bene. “Questa volta non te ne andrai?”
“Non posso.”
Dissi piangendo.
Subito sistemai il letto di casa e la scrivania della postazione di lavoro, li guardai, sembrava proprio che guardassi un’esistenza invariabile e frustrata. Portai nell’umidità della pioggia quella ragazza di Pechino che mi aveva fatto tornare in contea: dopo un lungo silenzio mi guardò calma dicendomi di stare tranquillo, di non preoccuparmi. Dissi che quando tutto sarebbe finito non sarei stato più nervoso. Più tardi la accompagnai per partire, alla stazione faceva freddo, molta neve copriva le rotaie, il treno cacciava vapore, tsch tsch. Io ero con un piede sul pedale, uno sul binario, esitante, fino a quando il treno non tirò su il naso.
Dopo essermi svegliato improvvisamente, non capii subito dove mi trovassi, fino a quando fui pienamente convinto che ero a Pechino e solo allora mi calmai. Quanto al mio paese, mi sentivo già un selvaggio, o dicevo di aver dimenticato le mie radici. Tuttavia sono ancora l’amico segreto di Zhou Qiyuan, noi apparteniamo al cielo, viaggiando di città in città ho capito il significato della vita.
L’ultima volta che vidi Zhou Qiyuan fu quando andammo all’Ufficio di Polizia a cercare un collega, facevamo qualcosa per suo fratello minore. Quel collega che veniva da un’altra contea, rispetto a noi era un nuovo arrivato all’Ufficio di Polizia, aveva già preso moglie e avuto figli, e mi disse: “Io ti ammiro.” Nel dialetto di Ruichang, il senso di queste tre parole è quello di una battuta fatta per corteggiare, significano: “Mi piaci tanto.” Un’espressione così tipicamente dialettale, sebbene fossimo di Ruichang, era difficile da gestire, tuttavia lui lo disse con leggerezza. Io ero terribilmente scioccato.
Anche Zhou Qiyuan parlava il dialetto di Ruichang, ma lo parlava a stento. Quando incontrava termini che non conosceva allora usava il mandarino. Sembrava una di quelle persone che sono state all’estero e, parlando parlando, nel discorso usano una parola straniera (per esempio “Sorry, non l’avevo visto”). Pensai che avesse fatto un miscuglio, anche se solo per un attimo. Indossava un cappotto blu scuro con pelo sulle spalle: il suo viso magro e dalla carnagione chiara, fece uno sbadiglio e, indicando il mio cappotto molto imbottito, disse: “Ah, non male!”.
“Me l’ha regalato un amico, non me lo sarei potuto permettere.” Poi, come in qualsiasi momento simile della vita, non avemmo più nulla da dirci. Aveva un registro contabile e come prima stava per ripetere una parola inglese. Io lo guardavo sorridendo, ma non mi guardava più confidenzialmente come prima, mi stava evitando. Ricordai un negozio storico che era sorto nel villaggio di Xiayuan: agli inizi degli anni Ottanta la mia sorella maggiore e un’altra ragazza del posto lavoravano lì come commesse, entrambe carine. Dopo aver ottenuto un lavoro in contea dai grossisti come direttrice di attività commerciale individuale, e diventata poi manager di supermarket, mia sorella stava ancora a lavorare come commessa nel villaggio. Prima vendeva fiammiferi, ora accendini. L’ultima volta era tornata a casa per offrire sacrifici agli antenati: ero andato a comprare dei petardi, e la trovai molto dimagrita, coperta di rughe e piena di capelli bianchi.
Stanca, mi disse affettuosamente: “ Sei Lao Zhu?”
“Sì.”
“Come sei cresciuto.”
Usava ancora la stessa tazza da tè di anni prima, bevve un sorso, la luce diventava scura. Sembrava un palo nello scorrere del tempo, c’era anche Zhou Qiyuan. Gli diedi un addio doloroso, e lo sentii dire: “Tu sì che sei stato bravo.” Mi girai, vidi la sua espressione delicata e commovente, negli occhi un’espressione triste e sconvolta, negli occhi aveva quella sete interminabile, quella disperazione senza fine. Forse voleva prendermi la mano, camminare ballando e cantando, ma mani forti, invisibili, spingevano sul petto.
“C’è qualcosa che non va, Qiyuan?”
“No, nulla.”
Andò in ufficio tappandosi il naso. Molto tempo dopo pensai ancora a quello sguardo quasi enigmatico, mi dava sempre la sensazione che un altro me mi stesse guardando. Qualche volta pensavo alle possibilità della vita. Per volontà fortuite, forse io sarei potuto diventare un uomo d’affari, un giocatore d’azzardo professionista, uno scrittore povero ma onesto, un suicida, vittima di un incidente d’auto e forse potevo ancora diventare un padre affettuoso e gentile, o uno che va a trovare il genero lontano. Ora come ora non ho altro che me stesso. Mi dedico tutto il tempo e tutto lo spazio, l’energia che posseggo la uso tutta insieme (come nella corsa dei 100 metri). Alla fine sboccerà un fiore completamente diverso. Tuttavia solo due io risulteranno alla fine:
Uno è Ai Guozhu, libero e dissoluto, alla deriva, senza regole, senza padre, che ne ha abbastanza della benevolenza del Cielo. Un altro è Zhou Qiyuan, diligente e dotato di autocontrollo, che pensa al futuro, aiuta gli altri e che nel cuore nasconde dieci litri di lacrime e sangue.
Il fatto che io non mi sentissi all’altezza quando lui mi guardava ha un significato profondo: non ero capace a stare con lui. Penso che questo sia un fallimento, la prima nota che soffre il rifiuto delle altre sette. Tuttavia, dopo tanti anni, quando vengo a conoscenza di altri segreti, quello sguardo ancora mi ferisce.
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