La montagna svuotata


2013 Lug
06

La montagna svuotata



Per Sinologie, vi presentiamo un breve estratto dal primo libro - capitoli 8 e 12 -  della trilogia La montagna svuotata (空山 Kongshan) di A Lai 阿来. La trilogia mette il luce, con spirito critico, la vita in un villaggio del Sichuan tra gli anni cinquanta e gli anni novanta. I vari personaggi si affannano nell'incontro-scontro con i nuovi stili di vita. Una strada, un pedarto, un'automobile assumono un significato diverso alle pendici del Tibet. La traduzione è di Beatrice Ceresini


Le esplosioni per aprire un varco nella montagna tuonavano rumorose, mentre sotto a un cielo azzurro e limpido enormi colonne di polvere si innalzavano una dopo l'altra e gli abitanti dei villaggi, così come gli animali della montagna, correvano a guardarle sollevarsi e disperdersi. In particolare sulle montagne che circondano i villaggi, non appena arrivava il momento, scimmie, cervi, caprioli, cinghiali, bharal, a volte addirittura orsi e lupi, all'udire il suono dell'esplosione, uscivano dai loro segreti rifugi nel fitto della vegetazione per correre sulle creste delle montagne tra le sparse piante, volgendo lo sguardo verso quei luoghi dove accadevano di continuo quelle cose strane. Le scimmie si arrampicavano sulle cime degli alberi grattandosi per l'agitazione, i cervi alzavano il collo dall'erba alta, gli orsi, con la loro consueta arroganza indolente, si accovacciavano sulle rocce più alte.

Se gli animali nei boschi, vigili e in allerta, erano curiosi ed eccitati, il fermento tra gli uomini era ancor più vivo. Questo perché a loro veniva comunicato costantemente che ogni novità in arrivo al villaggio era la garanzia o l'anticipazione dell'avvento di una vita felice: alla fondazione della comune popolare era stato detto così e così era stato detto anche quando il primo mezzo su gomma si fermò nella piazza principale del villaggio. Si disse così quando un giovane maestro di etnia Han era arrivato al villaggio su quel mezzo e fu costruita la prima scuola elementare. Quando il primo cavo telefonico fu installato nel villaggio, anche in questa occasione si disse così. La linea era molto lunga, tuttavia vi era un solo apparecchio telefonico, posizionato a casa del segretario del gruppo di produzione, come la statua votiva di un bodhisattva di quelle che in passato venivano esposte nei giardini dei un monasteri: il corpo dello strumento era coperto da un drappo di velluto rosso, il segretario abbassava il ricevitore e lo appendeva al corpo della macchina e quando doveva usarlo lo sollevava. Il telefono era stato installato da ormai più di due anni. Nessun abitante aveva mai avuto bisogno di usarlo, né aveva notizie da passare alle orecchie di coloro che ne avevano uno. Le loro notizie passavano tutte tra gruppi di persone che non avevano un telefono. Suonò una sola volta per caso, le altre volte aveva suonato solo per invitare i quadri del villaggio a partecipare ai comizi della comune.

Solo due volte il telefono non aveva suonato per dare notizia di una riunione.  Una volta era stato perché a casa del maestro elementare era successo qualcosa, non appena ricevuta la telefonata era infatti partito per un mese e al ritorno era visibilmente dimagrito. In seguito si era sentito dire che la madre, maestra elementare in una città più grande di Shuajingsizhen, si era suicidata. L'altra volta al telefono era arrivata la notizia che degli agenti segreti taiwanesi si erano paracadutati nella zona. Tutti gli abitanti di Jicun in grado di muoversi erano andati sulle montagne a cercare, il risultato fu che nessuno trovò niente. In poche parole, quel telefono non aveva mai diffuso buone novelle celesti o cori paradisiaci.
Quando però l'autostrada fu costruita, grazie alla propaganda e alle impressioni della gente fu come se fosse stata calata una scala per il cielo.
Non tutti però attendevano con ansia il giorno in cui l'automobile sarebbe arrivata, non tutti pensavano che starvi seduti desse sensazioni meravigliose come sfrecciare in aria controvento.

[…]

Il sole iniziava a tramontare, le pietre esplose nell'aprire il varco nella montagna smisero presto di cadere. Quando gli abitanti di Jicun tornarono a casa, gli operai addetti alla costruzione della strada stavano portando in spalla dell'esplosivo e con le micce in mano posizionavano le cariche nelle fenditure tra le rocce. Non si erano allontanati di molto dal cantiere in direzione del sole che calava dietro alle vette delle montagne, guardavano gli operai dar fuoco alle micce mentre con un fischietto in bocca soffiavano un segnale acuto e correvano via. Poco dopo la terra sotto di loro tremò, alcune colonne di fumo si alzarono verso il cielo insieme al suono improvviso dell'esplosione. Le pietre si ruppero con uno schianto, in un solo giorno di lavoro, quella strada una volta sgombra era di nuovo sepolta dalle pietre.

[…]

Dopo la costruzione della strada, i capi supremi tornarono a Jicun proprio a bordo di una jeep.
I capi tennero un comizio nel luogo in cui la distruzione della foresta avrebbe lasciato spazio a terreni incolti. Lodarono poi lo spirito industrioso degli abitanti del villaggio e allo stesso tempo fecero notare che buttare tutto quel prezioso legname in una pira per darvi fuoco fosse un vero spreco. Il possente edificio del socialismo aveva bisogno di quel legname. Ora che la strada era stata costruita, si sarebbe potuto trasportare il legname al di là della montagne per offrire un piccolo contributo al maestoso palazzo socialista. Fu per questo motivo che gli uomini di Jicun ricevettero un nuovo carico di duro lavoro: trasportare una parte del legno fino al bordo della strada e aspettare che una macchina venisse a caricare i pesanti tronchi. Questo era un metodo di lavoro che gli abitanti di Jicun non avrebbero mai sognato nemmeno in otto generazioni. In quel momento le loro gole depresse gracchiavano un motivetto appena imparato per coordinare i movimenti di marcia, con il viso madido di sudore trasportarono il legno fino a un punto in cui potesse essere caricato in macchina fino a posti lontani dalle montagne.
Forse c'erano anche delle argomentazioni pessimistiche non del tutto espresse: la strada era stata costruita, gli abitanti di Jicun continuavano ad andare a piedi ma si erano fatti carico di corvée mai sostenute prima per poterla aprire. Le braccia di molti uomini dolevano, erano state versate anche gocce di sangue ma non ne avevano tratto ancora nulla, sennonché le sbucciature sulla pelle si stavano rimarginando. La pelle degli stivali che indossavano invece, sotto simili sforzi estremi, si era consumata ben più del solito e non c'era modo di risarcire questo tipo di danni.

[…]

Gela pensava di dover piangere. Alzò gli occhi al cielo, in quel cazzo di mondo senza sentimenti, versare lacrime non serviva assolutamente a nulla. In quel tondo di cielo racchiuso dalle chiome delle alte conifere, volavano alcune nuvole sottili sfilacciate e sospinte dal vento freddo d'alta quota. Gela iniziò a piangere piano, hai ragione cazzo, appena pensi di piangere incominci subito. Tornò tra gli arbusti e vide le impronte lasciate dai fagiani mentre passavano sul loro sentiero. Allungò un po' il collo, imitava con un'espressione greve l'atteggiamento dei fagiani a passeggio oziosi nel bosco, ma le sue mani erano invece in attività e l'altezza con cui solleva e abbassava il collo serviva a fissarvi attorno la morbida corda. In quel momento fu come se gli avessero bloccato la gola, grugnì a bassa voce e si rovesciò per terra. Aveva lo stesso aspetto dei fagiani in trappola. Si buttò a terra, la parte superiore del corpo cercava di rialzarsi, con la testa legata a un albero da una corda immaginaria, le gambe scalciavano selvaggiamente, le mani sbattevano come ali di uccello in preda ad un violento spasmo.
Infine, con un lamento funebre grugnì dal fondo della gola, ribaltò gli occhi, il corpo immobile, morto. Quei cazzo di fagiani che aveva già preso e stava per prendere morivano lottando in quel modo. Gela sdraiato per terra, si massaggiava il collo come se lo avessero effettivamente strozzato. Rimaneva a terra a ridere come un pazzo, finché gli mancò il fiato come se una corda lo stesse strozzando, finché non iniziò a piangere, fanculo, se doveva piangere che fosse per il ridere e non per le suppliche e le preghiere di questo mondo infame.