La crisi del modello occidentale



Dietro al nazionalismo cinese non si nasconde necessariamente l’azione del governo, ma un fenomeno sociale di vecchia data e molto eterogeneo nelle sue componenti. Spesso un punto di incontro e di partenza è costituito dall’insofferenza per la natura univoca dei criteri interpretativi della realtà, frutto della secolare egemonia mondiale dell’emisfero occidentale. In un momento di profonda crisi dei sistemi liberali e democratici, dal web emergono con maggiore risonanza voci che si prestano a prospettive “altre”, rivendicando dignità e sfidando gli stessi principi alla base delle democrazie occidentali. Zhang Weiwei 张维为 è figura autorevole all’interno di questo dibattito, i suoi scritti godono di circolazione in rete, nei circoli studenteschi e tra la “gioventù di aprile”, tutt’altro che indomita a cinque anni dalla sua nascita.

Un amico tedesco mi ha raccontato una barzelletta sulla politica: il cancelliere tedesco chiede a un esperto d’economia perché in Germania non ci sono economisti  di fama mondiale; lui gli risponde: «cancelliere, non deve assolutamente preoccuparsi, perché se la Germania avesse un economista di primo piano, l’economia mondiale andrebbe allo sfascio!» In altre parole, negli Stati Uniti e in Occidente, il sistema economico –consolidatosi in particolare dal secondo dopoguerra- ha generato grandi problemi. Innanzitutto la crisi finanziaria del 2008 non è stata prevenuta ed è ipotizzabile che questa sia una delle ragioni principali a monte della crisi attuale.

Allo stesso modo, negli ultimi trent’anni, le previsioni di studiosi occidentali sul futuro della Cina continentale, incluse quelle di molti rinomati esperti di Cina, si sono rivelate ampiamente errate. Francamente, in parte ciò è dovuto a un pregiudizio ideologico:  è sempre stata diffusa la convinzione che il sistema politico cinese non andasse bene e che il modello americano avrebbe rappresentato il futuro della Cina. Invece, temo che sia la stessa natura delle teorie e delle metodologie occidentali a scontare enormi limiti, tanto in ambito politico, quanto nell’economia, nel giornalismo, nella sociologia e nella giurisprudenza. Per questo ho avviato una riflessione sulla necessità di un “cambio di paradigma” nella ricerca e nelle scienze sociali.

Dopo aver vissuto per vent’anni in Europa, sento che il modello occidentale si trova di fronte a una grande sfida. Per i paesi e le società non occidentali che lo hanno adottato, essenzialmente ci sono due possibili ricadute: nel primo caso si passa dalla speranza alla delusione, nel secondo la speranza degenera nella disperazione. I delusi sono la maggioranza e comprendono gli stati della cosiddetta terza ondata di democratizzazione (1), in gran parte degli “smidollati” che dipendono dal supporto dell’Occidente.

A essere chiamati in causa sono alcuni presupposti teorici di base del sistema democratico occidentale, quelli che io chiamo “limiti genetici”. Uno di questi presupposti è che gli esseri umani siano razionali; c’è la convinzione che le persone, attraverso una riflessione accurata, sappiano dare un voto razionale. Tuttavia, oggi, l’elettorato è sempre più populista. Un altro presupposto è che i diritti siano assoluti, mentre la cultura cinese ci insegna come solo nell’equilibrio tra diritti e doveri stia la verità.

Per quale ragione esiste un’alta probabilità di sconfitta per quelle società che nel resto del mondo hanno adottato il modello democratico occidentale? La mia sintesi del sistema occidentale è racchiusa dalla formula “dalla divisione all’unità”, con cui intendo una società fondata da diversi gruppi di interesse, ognuno dei quali dotato di una propria rappresentanza. Attraverso la competizione all’interno di un sistema multipartitico e con l’espediente delle elezioni, la frammentazione e le divisioni iniziali tornano a essere unità. Una delle peculiarità che accomuna le società non-occidentali è che laddove sono divise non riescono più a ritrovare unità. È quello che accade a Taiwan, in Thailandia, in Mongolia, nelle Filippine e oggi persino in molti paesi occidentali; tra questi, gli stessi Stati Uniti sono sempre meno uniti.

Fino a oggi, in Cina, il Partito comunista non è solo il partito di una minoranza o di parte della popolazione, ma è anche il soggetto politico che rappresenta la grande maggioranza delle persone. Questo è un punto cruciale. Per fare un’analogia, le cento persone più ricche in Cina non possono interferire sulle misure adottate dall’Ufficio politico del Partito comunista cinese (2), ma negli Stati Uniti le cinquanta persone più ricche possono influenzare la Casa Bianca.

Una delle principali caratteristiche del modello cinese è nel principio della “nomina di uomini virtuosi e capaci” (3). Attualmente, i membri del Comitato permanente vantano in gran parte due o tre esperienze come Segretario generale a livello regionale. Se ci basiamo sul principio democratico del voto individuale, lo stato cinese è illegittimo. Ma se ci rifacciamo alla logica cinese della “nomina di uomini virtuosi e capaci”, secondo cui per amministrare un paese sono necessarie persone di talento, allora anche il governo americano è illegittimo.

A Taiwan l’educazione è sempre stata ispirata dalla cultura tradizionale cinese, la gente di base è di animo genuino e semplice. Però la politica e i media agiscono in modo estremista, provocatorio e anche violento. Ma allora, sulla base della cultura cinese, non potrebbe essere che Taiwan, invece di un modello democratico fondato sull’agire da ‘bastian contrario’, debba sperimentare una via democratica di natura consociativa?

Oggi la Cina continentale sta seriamente testando la democrazia consociativa. Prendiamo l’esempio del piano quinquennale, che implica migliaia e migliaia di consultazioni a ogni livello; è un esempio di vera democrazia, che dà un orientamento a lungo termine al paese. Oppure guardiamo al distretto di Pudong 浦东a Shanghai 上海: la strategia per lo sviluppo della zona è stata formulata nel 1990 e da allora è stata confermata con continuità, fino a generare l’odierno miracolo di Pudong. A mio giudizio Shanghai non ha paura di competere con New York e, ugualmente, neanche il modello Cina teme la competizione con quello occidentale.

Note al testo:
(1)   Secondo la definizione dell'Huntington, i paesi della “terza ondata di democratizzazione”, in tutto cinquantotto, sono quelli che hanno intrapreso il processo di liberalizzazione politica tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta.
(2)    L’Ufficio politico del Comitato centrale del Partito comunista cinese, detto anche Politburo, è dopo il Comitato permanente dello stesso il più importante organo decisionale politico in Cina.
(3)    Il detto “nominare uomini virtuosi e capaci” (选贤任能 xuan xian ren neng) compare per la prima volta negli Annali della dinastia Tang (618-907 d.C.), compilati nel Decimo secolo.

editing a cura di Gabriele Battaglia

Tradotto da Mauro Crocenzi, 19 Aprile 2013