Nel web cinese è difficile imbattersi in una riflessione critica sullo Xinjiang 新疆. Come accade anche per la questione tibetana, di fronte alle tensioni etniche il governo cinese ha fino oggi adottato politiche di radicale chiusura e censura. L’articolo che vi proponiamo oggi ha attirato l’attenzione di blogger attenti all’evolversi della questione etnica in Cina, ottenendo diverse segnalazioni in rete, ma creando anche scetticismo, a dimostrazione di come ancora oggi –a distanza di più di tre anni dalla rivolta del 2009- sia difficile avere un’idea obiettiva e fondata della reale situazione nello Xinjiang. Autore del post, redatto il 20 gennaio 2013, è Ma Zhifang 马志方, blogger impegnato nella lotta contro l’ineguaglianza etnica.
Di passaggio a Kuytun (1)
Quel pomeriggio, il nostro gruppo, composto da quattro persone, raggiunse la contea di Kuytun, uno dei maggiori centri di produzione di cereali, cotone e petrolio di tutto lo Xinjiang [...].
An Wa’er 安瓦尔, nativo di Kuytun, ci aspettava nel luogo convenuto. Era un compagno di studi di mio figlio e si è laureato a Pechino, presso l’Università cinese del petrolio. Nel 2002, all’età di diciassette anni, aveva lasciato Kuytun per studiare a Hangzhou 杭州, presso un istituto superiore speciale per ragazzi dello Xinjiang.
Una volta, in occasione del Ramadan, mio figlio mi telefonò per chiedermi se poteva invitare a casa nostra un compagno di studi uiguro per le ultime settimane delle vacanze estive. Dopo qualche giorno An Wa’er giunse dallo Xinjiang a casa nostra, portando alcuni prodotti tipici locali comprati alla stazione di Turfan.
Si fermò a casa nostra per una decina di giorni, trascorrendo con noi il Ramadan, osservando insieme a noi il digiuno e recandosi regolarmente, per cinque volte al giorno, alla moschea vicino casa. A parte questo, si chiudeva nella piccola stanza di mio figlio, dove consultava tranquillo le sacre letture islamiche redatte in cinese.
Prima di iniziare l’università sapeva poco o niente dell’Islam. Mio figlio può essere considerato il suo mentore; nel tempo libero approfondivano insieme la loro conoscenza dei principi religiosi. An Wa’er partì praticamente da zero. Dopo tre mesi iniziò a praticare; studiava l’arabo nel fine settimana e studiava a voce alta il Corano. Mio figlio ricordava: «Io avevo il sonno pesante e spesso non mi alzavo per le preghiere della mattina. An Wa’er viveva nel dormitorio di fronte al mio e veniva sempre a svegliarmi».
Alla fine delle vacanze si preparò per rientrare a Pechino, scusandosi ripetutamente per il ‘disturbo’ arrecatoci durante questo Ramadan. Mise la mano destra sul petto e ci invitò tutti a Kuytun quando avremmo avuto il tempo per fare un viaggio nello Xinjiang. Un giorno dopo la sua partenza, all’imbrunire, mio figlio mi disse all’improvviso: «Se non fosse venuto a casa nostra sarebbe stato difficile per lui praticare durante il Ramadan; i suoi genitori hanno molte aspettative in lui e temevano che osservare il Ramadan a Kuytun potesse avere conseguenze negative per il suo futuro». Successivamente, il Dipartimento dell’istruzione e altri unità amministrative di Kuytun avrebbero promosso, con alcuni insegnanti in pensione, la firma di un “impegno a non prendere parte ad attività religiose”. Malgrado ciò fosse in aperto contrasto con le disposizioni del trentaseiesimo articolo della Costituzione, nello Xinjiang, incredibilmente, non vennero presentate resistenze (2).
Notte al villaggio
Passate le nove di sera –ora di Pechino- ci fermammo a Baijiantan 白碱滩, un villaggio nei pressi di Karamay 克拉玛依.
Mangiammo allegramente la cena in un ristorante elegantemente decorato e con un’atmosfera calorosa; il personale uiguro in uniforme offrì un servizio premuroso e rimanemmo soddisfatti delle nostre scelte: prendemmo spaghetti in salsa di soia, misto di tendini, pilaf e qualche verdura, con il tè offerto dalla casa.
Dopo essere rientrati in albergo, ci sedemmo tutti e cinque sul tappeto e cominciammo a bere del tè. Chiedemmo a An Wa’er come andasse il lavoro. Aggiustandosi il copricapo uiguro ci spiegò che a Pechino si era sempre recato agli incontri con le aziende presso la sua università; nel tempo, aveva anche scritto in cinese undici lettere di presentazione per trasmetterle con rispetto ad aziende che offrivano lavoro, specialmente a quelle dello Xinjiang. Non venne selezionato, neanche dalle aziende dello Xinjiang. Non riuscì a farsi una ragione di come le aziende petrolifere di casa sua non fossero interessate a un uiguro.
La figlia di un altro mio amico uiguro si è laureata in una università di telecomunicazioni. Le aziende in cerca di dipendenti davano giusto un’occhiata al suo curriculum e aggiungevano un rifiuto. Mi disse che i suoi compagni universitari, con la sua stessa specializzazione ma di etnia han, erano stati tutti assunti da aziende del settore. In seguito, fece un esame e finì a insegnare in una remota scuola elementare di Tianshan 天山, gettando così al vento quattro anni di studio nelle telecomunicazioni.
Un giorno, un gruppo petrolifero americano con sede in Cina si rivolse all’università in cerca di personale. An Wa’er si mise a preparare una lettera di presentazione in inglese. Dopo una settimana fu contattato per un colloquio. Era stato selezionato. Ma i suoi genitori erano già anziani, le sue tre sorelle maggiori si erano già sposate e avevano lasciato casa, così i genitori non accettarono che il loro unico figlio andasse fino a Tianjin 天津 per lavorare. È difficile disobbedire a un padre. An Wa’er aveva chiesto cinque giorni di ferie e da Pechino era tornato a Kuytun, per ritentare la fortuna nei campi petroliferi di Karamay. Dei rappresentanti dei campi di Karamay erano già stati a Pechino e avevano scartato la sua candidatura dicendo che volevano dare la priorità a persone residenti nella zona. Alla fine anche quella volta non lo assunsero (3).
«Prima sarei dovuto andare in quell’azienda americana, starci qualche anno e poi ritornare a Kuytun, prendermi cura dei miei e rimettermi a studiare per fare qualcosa nel commercio», ci disse stringendo i pugni con imbarazzo.
Oggi ha lasciato il gruppo americano per andare a specializzarsi presso una prestigiosa università straniera con l’intenzione di farsi strada all’estero. Sa che in futuro non avrà ancora prospettive di lavorare nel suo settore nella sua terra natale.
Nel primo mattino, la cittadina di Baijiantan, sul Gobi, è ancora tranquilla. Dopo la preghiera del mattino si è fatto giorno. Ci separammo da An Wa’er con una stretta di mano e proseguimmo noi quattro alla volta di Altay 阿勒泰.
Quando la vettura si mosse, vidi ancora attraverso il finestrino An Wa’er, sul bordo della strada nel freddo vento invernale. Era lì, in piedi, sembrava seguirci con lo sguardo. Non agitò le mani e in un attimo uscì dalla nostra visuale.
Nang e pilaf (4)
Quel giorno, prima di salire sul treno, un mio amico di nome Abdullah aveva insistito per portarmi a mangiare del pilaf con un altro amico.
«Il posto l’ha aperto uno che conosco, è buono», disse. Una decina di minuti dopo arrivammo a quel ristorante musulmano, che si trovava sulla via Jing’er. Il proprietario era di etnia hui (5), mentre il cuoco era uiguro. La sala non era grande ma era stata ristrutturata con gusto: tavole e sedie erano tutte in legno color caffè e sulle pareti c’erano dei quadri a olio con paesaggi dello Xinjiang. Il posto era conosciuto per il suo pilaf perché era fatto sul momento usando delle piccole pentole, e il cuoco cinese era occupato ininterrottamente, non poteva nemmeno sollevare un attimo il capo.
Per fortuna al nostro ingresso c’era ancora un tavolo libero. Mi resi conto che i clienti erano quasi tutti cinesi han. Mentre mangiavamo parlammo delle differenze tra il pilaf uiguro e quello degli hui. Il proprietario non si era tenuto fuori dal discorso: «il pilaf ? Quello autentico è degli uiguri. Ma...» -si diede un’occhiata intorno e abbassò la voce- «al giorno d’oggi molti cinesi han non vanno a mangiare dagli uiguri». Ci raccontò anche una storia: mentre un giovane han aveva comprato del nang da un uiguro, fu visto da una vecchietta, anche lei di etnia han. Lo apostrofò: «Se non mangi il loro nang hai paura di morire di fame?» Il giovane aveva preso il nang andando silenziosamente per la sua strada, ma l’anziana lo aveva seguito indomita, finché il giovane non aveva gettato con violenza il nang in un cestino dei rifiuti sulla strada. Ascoltammo allibiti e, finito il pilaf, ci avviammo verso la stazione.
Lungo la strada per la stazione avevo in testa solo lo Xinjiang, mentre i passanti si affrettavano alla partenza.
Tutti sanno che lo Xinjiang è la regione più estesa di tutta la Cina e che copre quasi un sesto del territorio nazionale, per una superficie di un milione seicentosessantamila chilometri quadrati. Per la Cina, lo Xinjiang è una riserva di fonti energetiche. Senza dubbio lo sviluppo economico è una via corretta; ho visto che lo Xinjiang sta ancora fronteggiando un divario tra posti lavoro e salari. Anche se la natura umana è incline alla bontà, in profondo nasconde anche egoismo. L’aspirazione a giorni di pace è dettata dal sano egoismo insito nella natura umana, non importa a quale nazionalità si appartiene. Lo Xinjiang non appartiene più a una nazionalità, ma è di tutti noi.
La pace e la stabilità dello Xinjiang dipendono dall’avanzamento dell’autonomia; sul modello della Legge sull’autonomia (6), occorre che tutti si comprendano e si assolvano reciprocamente con profonda sincerità e mutuo rispetto. Attraverso l’onestà che viene dal profondo del cuore, sedendo insieme nell’uguaglianza, comunicando seriamente senza riserve, rimarginando gradualmente le ferite ed eliminando prima possibile le incomprensioni, si attenueranno alcuni blocchi psicologici nei vecchi abitanti dello Xinjiang e crescerà la quiete in quelli nuovi. Pilaf e nang sono gli alimenti prediletti dei vecchi abitanti dello Xinjiang, ma incontrano il favore anche di quelli nuovi.
Il mio appello
Chi scrive, in passato, ha redatto due lettere, spedendole con un corriere espresso a Zhang Chunxian 张春贤, il vecchio Segretario generale dello Xinjiang. Nelle lettere avevo parlato delle traversie professionali di An Wa’er e del conforto religioso. Se il governo manda sin da piccolo un ragazzo uiguro in un posto lontano per fargli ricevere un buon livello di istruzione ma quello stesso ragazzo alla fine non viene più accettato dallo Xinjiang e, anzi, viene allontanato da casa, che messaggio diamo a lui e ai suoi compagni? Naturalmente l’amministrazione e gli individui che tengono in pugno lo Xinjiang e controllano le sue risorse potrebbero non avere intenzione di stare a pensare ai sentimenti dei “nativi”; in fin dei conti la maggior parte di chi si reca nello Xinjiang da ogni parte della Cina in cerca di guadagni facili per quale motivo dovrebbe riflettere sul fatto che gli uiguri occupano posizioni svantaggiate o subordinate?
Durante il viaggio, mi sono reso conto al passaggio della dogana che i responsabili della riscossione erano praticamente tutti degli han in divisa. A Yining 伊宁 tutti gli spazzini erano uiguri. Gli uiguri sono un’etnia molto attenta all’igiene, far pulire loro le strade deve essere una “vocazione professionale”.
An Wa’er non ha potuto o non ha osato osservare il Ramadan né partecipare alle cerimonie religiose a casa sua; è difficile che questo non faccia tornare in mente alla gente il tentativo di eliminare la religione compiuto durante la Rivoluzione culturale.
Nelle scuole dello Xinjiang, agli studenti musulmani, non è consentito osservare il digiuno durante il Ramadan. Con l’autorizzazione dei maestri, agli scolari che praticano il Ramadan vengono date gratuitamente delle caramelle e in questo modo li costringono a rompere il digiuno; se uno scolaro si oppone, il maestro ordina ai compagni di aprirgli a forza la bocca e fargli mangiare le caramelle.
Alle entrate delle moschee ci sono persone messe apposta di guardia, che impediscono l’ingresso ai minorenni e nel momento in cui vengono “beccati” degli scolari, sono l’imam della moschea e il suo staff a essere puniti. Se un gruppo di persone si recasse in visita ai compagni musulmani o nelle moschee, il tribunale potrebbe condannarle per il reato di “uso della superstizione per impedire l’attuazione della legge”, con pene che vanno dai tre ai sette anni.
In una Cina in cui dall’alto al basso ci si appella allo stato di diritto e alla costituzione, alcuni metodi applicati in zone dello Xinjiang sono incomprensibili e andrebbero messi sotto esame.
Nello Xinjiang possiamo ancora intonare orgogliosamente e sinceramente “Che bella terra il nostro Xinjiang”?
Note al testo:
(1) Kuytun 奎屯 è una contea situata sotto l’amministrazione autonoma kazaka di Ili 伊犁, nella regione dello Xinjiang.
(2) L’articolo 36 della Costituzione cinese [LINK http://english.people.com.cn/constitution/constitution.html] garantisce la libertà religiosa, condanna qualunque forma di discriminazione religiosa e tutela la pratica di attività religiose, vietando però le attività che disturbano l’ordine pubblico.
(3) In Cina la residenza degli studenti universitari è determinata dalla città dove compiono gli studi e non dai luoghi di origine.
(4) Due dei prodotti tipici della cucina dello Xinjiang. Il nang è un pane a forma di pizzette schiacciate, il pilaf è un piatto di riso con carne montone e verdure.
(5) Gli hui 回 sono cinesi han di fede islamica, riconosciuti ufficialmente come uno delle cinquantasei ‘nazionalità’ che compongono la Cina, sebbene si distinguano non per un’identità etnica ma per un identità religiosa.
(6) Lo Xinjiang, assieme al Tibet 西藏, al Ningxia 宁夏, alla Mongolia interna 内蒙古 e al Guangxi 广西, gode dello status di regione autonoma. Le regioni corrispondono grossomodo alle zone ove si registra una concentrazione ata e omogenea di singole minoranze etniche. Esistono comunque unità amministrative autonome di livello inferiore anche in altre regioni.
*Foto di Tania di Muzio
Vignette dal web cinese
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