Il cinema della luce rossa


2012 Apr
02

Il cinema della luce rossa
红光电影院 di Luo Bing ( 洛兵 )


Poeta, scrittore e musicista, Luo Bing ci conduce in un viaggio nella sua giovinezza, dove le proiezioni dei film nel cinema della luce rossa divengono metafora e segno dello scorrere del tempo. Dal cinema socialista rivoluzionario a Guerre stellari, i cambiamenti di una società e di una città si susseguono parallelamente alla parabola dell’invecchiamento, fino a privare un uomo delle sue radici, in una città natale irriconoscibile e consumata come un fotogramma di un film.

Il cinema della luce rossa è nella mia città, di fronte alla via del Teatro dell’opera e della danza del Sichuan. È un sala polverosa. Ai miei tempi questo tipo di costruzioni erano ovunque a Chengdu.

Una sera, quando ero piccolo, entrai nel cinema e vidi un film, La terza sorella Liu (刘三姐, Liu sanjie). Huang Wanqiu 黄婉秋 divenne subito la prima donna dei miei sogni, un mito che avrebbe resistito per tutta la mia infanzia (1). La prima volta che fui colpito dall’insonnia, provai una dolce sofferenza come in una sorta di ipnosi. Mi immaginai nei panni del pescatore, l’eroe del film, ma ero troppo piccolo e nel rendermi conto che non gli somigliavo per niente venni colto dall’ansia.

Dopo un mese fui costretto a malincuore a elemosinare qualche biglietto dai miei compagni di gioco, barattandoli con bilie e stecche di sigarette. Andavo sempre a rivedere quel film, finché non memorizzai ogni canzone, le trame e tutte le battute. Il grazioso viso pieno e vermiglio della terza sorella Liu aveva fatto breccia nel mio cuore e mi tornava in mente tutte le notti. Solo alcuni anni dopo, Li Xiuming 李秀明, l’attrice di La principessa pavone (孔雀公主, Kongque gongzhu), riuscì a scalzare la mia musa (2). Le due attrici avevano un punto in comune: la bellezza dei loro visi pieni. Fu allora che iniziai a pensare che le donne dovessero essere abbondanti proprio come quelle dei film, o come la vita stessa: piena, fertile, esuberante.

A quei tempi i divertimenti erano ben pochi, per cui l’arrivo nelle sale di un film albanese come Esplosione (爆炸, Baozha) era un evento ancora più grande di quanto sia oggi l’uscita dei grandi kolossal occidentali. Quella volta, fuori dal cinema, per tutto il giorno girarono una miriade di scansafatiche dall’aria arrogante, con in mano biglietti a prezzi maggiorati. Generalmente la polizia se ne infischiava, a volte facevano addirittura comunella.
Nel cinema invece c’era tutta un’altra atmosfera: il pubblico, non appena vide l’uomo dalla barba lunga stringere a sé la bella ragazza, iniziò a gridare preso da un’agitazione incontrollata. Questo tipo di scene non esistevano nei film della Cina socialista, uomini e donne non potevano lasciarsi andare a simili smancerie e dovevano quotidianamente controllare le emozioni; il popolo di base doveva dare prova di una purezza pari a quella degli uccellini. Alla fine del film quel povero compagno che aveva riparato la fuga della gente, volava in aria per il contraccolpo dell’esplosione, rotolando e ritrovandosi al cospetto della morte (3). La sua donna usciva di casa muovendosi a rallentatore e al grido toccante del suo nome. Ma era chiaro a tutti che per lui non c’era già più niente da fare. Era questo il romanticismo rivoluzionario, che tanto penetrava nei cuori della gente lasciando in bocca un sapore amaro.

Al cinema della luce rossa ho visto La storia di Jinji e Yinji (金姬银姬的故事, Jinji Yinji de gushi), La fioraia (卖花姑娘, Mai hua guniang) e Il figlio dell’autista del treno (火车司机的儿子, Huoche siji de erzi), piangendo assieme agli altri spettatori fino a perdere il contatto con la realtà (4). La musica era davvero bella e le battute toccanti, mentre noi eravamo persone troppo facilmente ingannabili, troppo ingenue. Così pensavamo che la Corea del Nord fosse un posto grandioso e la Corea del Sud un posto oscuro, che l’imperialismo americano fosse crudele e che avevamo il dovere di spedirlo all’inferno. Il nostro professore ci diceva che i due terzi della popolazione mondiale viveva ancora nella sofferenza e aspettava il nostro salvataggio. Noi ci credevamo e ci tenevamo sempre pronti a lottare per il comunismo e per il bene di eroine come Jinji e Yinji (5). A distanza di anni mi succede di ripensarci e sospiro, in realtà era semplicemente l’opposto. Questo dimostra che anche i film possono ingannare le persone, tutto sta a chi recita, a chi gira, a chi produce e a chi guarda.

Talvolta nel tardo autunno, le foglie degli alberi wutong cadono una a una e l’aria inizia a fremere come se il cielo dovesse ardere. Valter difende Sarajevo (瓦尔特保护萨拉热窝, Waerte baohu Salarewo) raggiunse la Cina continentale. È un grande classico, il colonnello Von Dietrich, pur essendo il cattivo, era anche inaspettatamente elegante e affascinante. Al momento dell’attacco a sorpresa al deposito di armi e munizioni dei tedeschi lanciato dagli studenti progressisti, la luce irradiava improvvisamente. L’orologiaio veniva ridotto a un colabrodo dalle mitraglie fasciste su uno sfondo riempito dal volo dei colombi. Il duello tra il vero e il falso Valter era così diverso dai combattimenti marziali dei film cinesi, ma anche così coraggioso e fisico! Ricordo ancora la frase emblema del film: «La vede questa città? È lei, questa città è Valter!» (6).
Ma ancora più a fondo mi colpì il documentario sulla Rivoluzione culturale che proiettarono prima del film: alcune scene di guerra spettacolari scorsero via e dopo che il  il sangue era schizzato con vigore in tutte le direzioni, all’improvviso compariva una graziosa ragazzina sui diciassette anni, capo di alcune guardie rosse. Giaceva su un grande letto dalle profonde tinte, che la rendeva ancor più innocente e minuta. Era nuda, con il viso e il corpo lavati alla perfezione, cosicché potevamo vedere chiaramente diciassette buchi, inferti durante le violenze con spranghe di acciaio su tutto il suo corpo, dal collo alle caviglie. Teneva quietamente gli occhi spalancati rivolti verso di noi. Non avrei dimenticato questo fotogramma per tutta la mia vita, nonostante, sfortunatamente, quel documentario in seguito non fu più proiettato.

Alla vigilia dell’esame di maturità, un colpo di fortuna mi diede un’improvvisa ispirazione: una persona capitò al cinema della luce rossa e diede una sbirciata al capolavoro di Erich Von Däniken Gli extraterrestri torneranno (众神之车, Zhongshen zhi che). Questo film era destinato a subire gli attacchi di molti critici conservatori, che lo ritennero un’opera pseudoscientifica, ma io invece lo trovai pionieristico e profetico (7). Da allora mi convinsi che la Terra fosse il parco giochi degli alieni e che noi non fossimo altro che i loro discendenti, se non il frutto dei loro esperimenti. Di notte fissavo il cielo stellato, persuaso che gli alieni si trovassero lì e mi guardassero, proprio come poteva fare un cane o un gattino. Allora non immaginavo che la vita in futuro sarebbe stata così meravigliosa, multiforme, ricca; ero molto soddisfatto di come andavano le cose, era tutto così calmo e ovunque fiorivano i miei sogni. Ma volevo ancora fare breccia nella realtà e perdermi nel firmamento, tutto ciò non dimostrava che anch’io fossi un alieno?
Un’altra illuminazione avvenne al secondo anno di università, di ritorno a Chengdu. Al cinema della luce rossa davano Guerre stellari (星球大战, Xingqiu da zhan). Anche questa volta all’uscita c’erano una marea di bagarini dal viso paonazzo e dall’espressione sicura; quando si spostavano avevano un’aria che ricordava le movenze dei cavalieri Jedi. Non osai fermarmi a lungo, comprai di fretta un biglietto ed entrai.
Mentre le grandi, oscure e ineguagliabili navi calcavano gli orizzonti mi sembrava di oltrepassare ogni percezione umana. La vita e le vista mi apparvero così illimitate, bramavo di sfrecciare accanto al mondo con quel senso di libertà, non incatenare nessun talento artistico e non asfissiare alcun tipo di condizione umana.

Dunque, ai tempi dell’università ero davvero indisciplinato e così, finalmente, venni espulso. Poiché smisi di studiare, tornai a casa e finii in fabbrica, dove iniziai a lavorare nell’Ufficio per la propaganda e l’informazione. C’era un’operaia che era molto carina con me, con cui mi ritrovai a parlare di matrimonio. Ci piaceva andare al cinema della luce rossa. Allora i biglietti erano molto economici e noi avevamo voglia di esplorare, energia ed entusiasmo, eravamo pronti a sperimentare appieno ogni tipo di destino. Mi sembrava che il mio futuro potesse essere compiuto dalle mie mani; la vita è tutt’altro che una melodia di bucolica bellezza, è una carcassa dal colore candido su cui la realtà ha scavato diciassette o diciotto buchi. Per questo dovevamo accettare il destino e non rigirarlo, non abbandonarsi alle fantasie.
A volte non guardavamo il film, ma fissavamo noi stessi. Gli occhi di entrambi erano luminosi e nivei, improvvisamente sentivamo il tempo fermarsi per un momento, tutte le delusioni e le difficoltà svanivano e ogni cosa ci appariva nella quiete e nel calore. Cosa c’è di male a essere una persona comune? Sicurezza, realismo, assenza di ambizioni sfrenate, solo felicità composta.
Quel tipo di sensazione mi è rimasto addosso finché lei non mi lasciò per andarsi a cercare un perfetto studente universitario.

Più di dieci anni sono passati in un attimo, e con il corpo ricoperto di polvere rieccomi di nuovo a casa. Ma mi rendo improvvisamente conto di non riconoscere più le strade. Il tassista mi porta a destinazione dicendomi di essere arrivati al Teatro dell’opera. Gli chiedo se mi stia prendendo in giro e dove diavolo mi abbia portato. Di rimando mi chiede se sia davvero di Chengdu, visto che non riconosco neppure il cinema della luce rossa. Guardo meglio ed è proprio vero, quella costruzione polverosa è ancora lì. Quand’ero piccolo mi smbrava così grande e ora che sono cresciuto è diventata così piccola. È in restauro, probabilmente si appresta a divenire sfarzosa, alla moda e in linea con la Chengdu del futuro, privandomi così della sensazione di trovarmi a casa e mettendomi di fronte alla realtà: non troverò mai la mia vera casa.

Mi piacerebbe molto andare al cinema della luce rossa e vedere ancora un film. L’ambiente dal sapore antico, il lento rumore del proiettore, la luce degli occhi traboccanti che appare e scompare, tutto questo ha riempito la mia giovinezza e dato colore al mio destino. So che sto invecchiando, per cui il mio spirito si è fatto docile ed esitante. Non ho più talento né fascino, ma solo delle capacità in via di deterioramento. La vita è proprio come dei fotogrammi di un film: un bagliore di un frangente che si consuma fugace e di cui ci rimane solo una pallida commozione e una densa assenza.

(1) La terza sorella Liu (1961) è un film tratto da una storia famosa –già soggetto di un’opera tradizionale- ambientata nel Sud della Cina, in cui l’eroina si oppone agli abusi di potere di un proprietario terriero locale. Il contenuto, le musiche folk e gli scenari spettacolari hanno reso il film un classico del cinema cinese. All’epoca Huang Wanqiu, l’attrice protagonista del film, aveva solo diciassette anni; con questo film divenne una star del cinema socialista, oggetto del culto di veri e propri fan. (2) La principessa pavone (1982) è un film tratto da una storia d’amore di origine dai, uno dei gruppi etnici che popolano la Cina meridionale. All’inizio degli anni Ottanta, giunta all’apice della carriera, la protagonista Li Xiuming abbandonò il mondo dello spettacolo per intraprendere la carriera imprenditoriale, che l’avrebbe portata a capo di un’importante marchio di patatine fritte. (3) Il riferimento è alla scena finale del film, ambientato su un cargo in fiamme carico di materiale combustibile. L’eroe del film, dopo aver favorito la fuga delle altre persone, perisce nell’esplosione finale. (4) I titoli citati sono di tre film nord coreani degli anni ’70. (5) La storia di Jinji e Yinji è un film incentrato sulla vita di due gemelle –Jinji e Yinji- rimaste orfane e divise dalla guerra di Corea. La prima viveva in Corea del Nord, dove condusse una vita felice, mentre la seconda finì nel Sud, dove sarebbe rimasta vittima di diverse ingiustizie prima di potersi riunire con la sorella. (6) Il film (Valter brani Sarajevo, 1972), molto conosciuto in Cina, narra le gesta della resistenza jugoslava a Sarajevo durante la ritirata nazista. A capo della resistenza c’è l’eroe Valter, uomo misterioso di cui i nazisti non conoscono neanche il volto. La battuta citata da Luo Bing e simbolo del film è in uno scambio in cui il colonnello tedesco, rassegnato alla sconfitta, riferisce a un ufficiale della gestapo di aver finalmente scoperto chi fosse realmente Valter, affermando che l’anima della resistenza era nella stessa città di Sarajevo. (7) Il regista del documentario –del 1970- era in realtà il tedesco Harald Reinl, che riadattò il libro di Von Däniken (The Chariots of the Gods?, 1968), le cui contestatissime tesi riconducevano l’introduzione di alcuni credi religiosi e di antiche tecnologie di costruzione all’arrivo di astronauti alieni.



Tradotto da Mauro Crocenzi, 02 Aprile 2012