“In base al calendario tradizionale tibetano, oggi è il primo giorno dell’anno 2139, anno del dragone d’acqua nel ciclo rabqung. Il nuovo anno (Losar) andrebbe salutato e celebrato con animo pieno di gioia, tuttavia nell’ultimo anno si sono immolati così tanti fratelli di sangue e altrettanti sono caduti in disgrazia... La mia terra è sotto il controllo militare e ‘la paura dei tibetani si può sentire con mano".
Per questo i tibetani non festeggiano il Losar, anche se c’è il Losar; e non avranno un Losar felice, ma un Losar di commemorazione.
Tuttavia il Partito non ammette che non ci sia il Losar. Il Partito ha chiesto ai tibetani di festeggiare il Losar. Al punto che hanno eretto due “chemar bo” in pietra di dimensioni spropositate, uno davanti al Potala e uno davanti al Jokhang, e sotto ai giganteschi “chemar bo” hanno riposto migliaia di fiori di seta in modo tale che formassero la scritta ‘Felice anno nuovo’ (1)”.
Con queste frasi la poetessa Woeser saluta sul suo blog in cinese il nuovo anno tradizionale tibetano. Dalla violenta repressione del 2008 il Tibet non ha trovato pace, le immolazioni compiante dalla scrittrice fanno riferimento ai gesti estremi di ventisei tibetani che dal 2009 a oggi hanno sacrificato le loro vite in segno di protesta. A distanza di circa una settimana dalla pubblicazione di questo post, a Tsering Woeser è stato impedito di andare a ritirare un premio letterario. Il provvedimento sembra confermare l’annuale morsa che si stringe sul Paese delle nevi ogni marzo, mese in cui ricorrono gli anniversari delle principali rivolte che hanno colpito l’altopiano tibetano nella sua tormentata storia recente.
Caratteri cinesi vi propone un articolo che Tsering Woeser ha pubblicato sul suo blog nel novembre del 2011, in cui affronta la dibattutissima questione del rapporto tra esuli tibetani e indiani.
Su facebook ho visto il video di un film di Bollywood, in cui una famosa star del cinema indiano cantava una canzone. La star è molto cool, canta e balla con passione, mentre sotto al palco viene salutato da urla agitate. Ma a colpirmi in particolar modo sono stati i fotogrammi in cui tra la folla viene sventolata ai quattro venti una bandiera con il leone delle nevi (2). Naturalmente la scena ha montato un caso e gli organi di controllo dei film indiani hanno tagliato i fotogrammi in questione, probabilmente per evitare di imbattersi nelle furie da Pechino.
Da qui ho iniziato a riflettere sul fatto che dal 1959 a oggi più di centomila tibetani hanno abbandonato il loro luogo natio per vivere in esilio in India. Che pensano gli indiani di questo fatto? E ancora: i tibetani in esilio vanno d’accordo con gli indiani? Ricordo un passaggio negli appunti di viaggio del Nobel per la letteratura V. S. Naipaul (3), in cui lo scrittore annotava che una volta, in qualche posto dell’India, si era imbattuto in Sua Santità il Dalai Lama e nel suo seguito tibetano. Nonostante egli sia uno scrittore a cui piace andare a cercare il pelo dell’uovo, in quell’occasione espresse una profonda solidarietà per i tibetani. Oltre a questo conosco il regista cinematografico Tenzing Sonam e la sua sposa indiana Ritu Sarin, così innamorati e fatti l’uno per l’altro da girare insieme così tanti bei film.
Ho proposto l’argomento su facebook e alcuni tibetani hanno risposto alle mie domande. Si tratta di persone comuni, che nella loro vita in esilio sono abituate ad avere contatti con indiani; come campione di vedute forse non può dirsi rappresentativo, ma si tratta pur sempre di percezioni che provengono dalla gente. Naturalmente è doveroso mettere in chiaro che dai tempi antichi ai giorni nostri non è esistito un paese che abbia avuto nei confronti dei tibetani le stesse enormi attenzioni dimostrate dall’India. Se in passato ciò è avvenuto sul piano culturale e su quello religioso, nell’ultimo mezzo secolo invece tali premure hanno salvato molte vite.
Di seguito riporto fedelmente la discussione con alcuni tibetani. Lobsang Wangdue ha scritto: «solo negli ultimi anni ho saputo dell’esistenza in India di alcune organizzazioni popolari a sostegno del Tibet; ho vissuto in India dieci anni e non ho amici indiani, anche per la maggior parte dei tibetani è lo stesso». Ho chiesto se fosse così perché l’India è troppo grande, o perché gli indiani sono troppi, perché sono diverse le religioni e diverse le culture. Mi ha risposto: «questa è una delle ragioni possibili, ma ritengo che i tibetani non si siano sforzati più di tanto per integrarsi. Da un altro punto di vista trovo che gli indiani siano difficili da trattare».
Zhaxi Jianzan ha manifestato il suo disaccordo dicendo: «non è difficile andare d’accordo con gli indiani, siamo solo noi che non ci sforziamo più di tanto per conoscerli, per cui la distanza da loro è aumentata».
Gendun Gyatso invece scriveva: «dal punto di vista di un tibetano comune la maggioranza degli indiani non si interessa ai tibetani. Di solito quegli indiani che vivono a contatto quotidiano con i tibetani ritengono che le condizioni economiche dei rifugiati tibetani siano già migliori di quegli indiani che ricevono un pezzo di terra dallo stato; per questo gli indiani non vedono e non riconoscono i benefici economici apportati dai tibetani in India. In generale, gli indiani di fronte alla questione tibetana sono freddi; una persona qualunque potrebbe supporre che in paesi che hanno sofferto il colonialismo le questioni dei diritti umani e della libertà ricevano grande supporto e comprensione, invece è sconfortante sapere che paesi come India e Sud Africa non sono affatto così, forse perché hanno già troppi problemi di per sé e non hanno tempo di pensare ad altro».
Yushu Kgu si è dissociato da queste affermazioni: «va detto che il sostegno dato dagli indiani a noi tibetani ha surclassato di gran lunga quello dato dagli americani e dagli altri paesi. Non possiamo guardare solo alla situazione di oggi, ma dovremmo chiedere alle vecchie generazioni. E se oggi si è formata tra gli indiani un’antipatia nei nostri confronti, è dovuto anche all’atteggiamento stesso di noi tibetani, pensa solo a quanto accade a Dharamsala».
Gendun Gyatso ha proseguito evidenziando la sua preoccupazione per il futuro: «dopo avere assistito alla faccenda Karma pa (4), penso che i tibetani non siano affatto ospiti graditi su suolo indiano. Una volta i tibetani in Nepal erano considerati abbastanza liberi, ma negli ultimi anni, per via delle ingerenze cinesi, per i tibetani persino l’organizzazione di raduni e di feste tradizionali che nulla hanno a che vedere con la politica è divenuta problematica. Sebbene le autorità nepalesi non abbiano ancora espulso nessuno, fanno però ricorso a ogni tipo di provvedimento per aggiungere limitazioni ai tibetani. È probabile che anche in India i tibetani possano iniziare a subire gradualmente limitazioni. Molte imprese tibetane in India non godono di legittimità di fronte alla legge. Ad esempio, il quartiere tibetano a Delhi ha dovuto far fronte a più riprese a fenomeni di abbattimento e ricollocamento forzato, proprio perché la maggioranza degli edifici non è a norma. In India c’è anche una élite che pensa che i tibetani costituiscano un ostacolo tra Cina e India. Ad oggi l’influenza internazionale di Sua Santità il Dalai Lama e lo scontro tuttora aperto tra India e Cina sulla questione dei confini permettono ancora ai tibetani di vivere sotto l’ala protettiva dell’India; tuttavia per il futuro ci sono molti fattori irrisolti, tutto sta a vedere dove l’India individuerà i suoi interessi, mentre noi tibetani dovremo lottare perché il governo indiano riconosca maggiori garanzie giuridiche alla causa della libertà tibetana».
Questo articolo è stato scritto per l’edizione tibetana di Radio Free Asia.
(1) Il conteggio degli anni a cui fa riferimento Tsering Woeser parte dall’inizio del regno del leggendario re Nyatri Tsenpo (127 a.C.). Il ciclo rabqung conta sessant’anni, ognuno dei quali viene denominato attraverso l’accoppiamento tra dodici animali e cinque elementi. La frase “la paura dei tibetani si può sentire con mano” è tratta da I segreti del Tibet, un poema scritto dalla stessa Woeser nel 2004. I chemar bo sono dei recipienti dalla forma e dalle decorazioni peculiari, riempiti con i principali ingredienti della cucina tibetana e adoperati nelle famiglie per dei riti di benedizione in occasione dei festeggiamenti tradizionali del capodanno tibetano. (2) La bandiera con il leone delle nevi è uno dei principali simboli dell’indipendentismo tibetano. (3) Vidiadhar Surajprasad Naipaul è uno scrittore nato nel 1932 a Trinidad da genitori indiani. Formatosi in Inghilterra, ha compiuto molti viaggi ottenendo il Nobel per la letteratura nel 2001. (4) Il riferimento è al caso di cronaca che ha coinvolto la diciassettesima reincarnazione della guida della scuola buddhista dei Karma pa, che oggi, tra i tibetani, è secondo per carisma solo al Dalai Lama, guida spirituale della scuola Gelug pa. L’importante reincarnazione – riconosciuta da Pechino e da Dharamsala, ma non dall’intera comunità buddhista Karma pa - è stata messa sotto inchiesta dalle autorità indiane per motivi fiscali. Il possesso di un’elevata somma di valuta cinese non dichiarata ha portato alcuni giornalisti a ipotizzare dei legami tra lo staff della guida karma pa e il governo cinese; più in generale il caso ha evidenziato uno scontro di interessi tra le autorità locali provinciali indiane dell’Himachal Pradesh e quelle tibetane in esilio.
Vignette dal web cinese
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