È il 1968. In Cina è in scena la Rivoluzione culturale, movimento di massa che vuole riportare in vita la rivoluzione comunista, estrarla dalle case e portarla in ogni angolo del paese, da Zhongnanhai alle aree rurali ai limiti dei confini nazionali. Le lezioni sono interrotte, gli studenti divengono guardie rosse, angeli tutelari della rivoluzione nel nome del Presidente Mao. Nel 1968 il giovane Guo Shenglu –in arte Shizhi- non è ancora il poeta riconosciuto di oggi, ha appena 20 anni e si appresta per la prima volta ad abbandonare Pechino per sperimentare la vita comunitaria nelle campagne centrali dello Shanxi. Sono le quattro e otto minuti del dieci dicembre, un pomeriggio qualsiasi nella stazione di Pechino affollata di giovani pronti a partire. Ma Shizhi non canta il trionfo della Cina socialista, né la spensieratezza di una gioventù in viaggio; il suo è un lamento malinconico, una recisione in cui le sembianze della capitale cinese assumono i contorni definiti di una madre. La poesia, composta di notte sul treno che lo allontanava dalla città, è tra le più famose e apprezzate opere scritte da Shizhi.
Questa è Pechino alle quattro e otto minuti,
oceano di mani in moto;
Questa è Pechino alle quattro e otto minuti,
suono smisurato di un fischio
Il massiccio edificio della stazione di Pechino,
d’improvviso divampa una violenta vibrazione.
I miei occhi rivolti attoniti fuori dal finestrino,
senza sapere cosa sia accaduto.
Il mio cuore esplode bruscamente nella pena, è sicuramente
l’ago che usava mia madre per cucire i bottoni a perforare il petto.
Proprio ora il mio cuore è divenuto un aquilone
e lo spago dell’aquilone è lì nelle mani di mia madre.
Lo spago è troppo teso, sta per spezzarsi,
devo sporgere la testa fuori dal finestrino della carrozza.
Solo ora, solo in questo momento,
capisco davvero cosa è accaduto:
Rumore di onde come addii in successione,
nell’attimo in cui trascinano via la stazione;
Pechino è sotto i miei piedi,
già mi muovo poco a poco.
Una volta ancora agito il braccio verso Pechino,
vorrei afferrarla per il collo del vestito
E poi gridarle a gran voce:
Ricordati di me per sempre, madre, Pechino!
Finalmente ho afferrato qualcosa,
non mi importa di chi sia questa mano, non può allentare la presa,
perché questa è la mia Pechino,
questa è la mia ultima Pechino.
...
Note: Grazie ad An Xin per la consueta pazienza e per i consueti, preziosi consigli
Tradotto da
Mauro Crocenzi, 05 Giugno 2012
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