L’universo dei dissidenti cinesi è costellato da individui molto diversi tra loro per età, posizione geografica, status sociale e soprattutto idee, ma che concordano su un punto ben specifico: la necessità di avviare un processo di riforme all’interno del sistema politico cinese. L'attivista e dissidente Wu’erkaixi, trasferitosi negli Stati Uniti in seguito alle tristemente note proteste di piazza Tian’anmen del giugno 1989, ci spiega nel suo blog il suo punto di vista sulla possibilità di riformare il sistema “dall’interno”, senza però dimenticare di illustrare anche altre vie che, seppur con strategie differenti, porterebbero ugualmente al cambiamento radicale del regime autoritario del Paese di mezzo.
All’interno del movimento democratico e in rete, è spesso possibile captare una voce, un pensiero secondo il quale bisogna abbandonare ogni speranza di riformismo “dall’interno”. Sarebbe bene soffermarsi un attimo ed analizzare in profondità questo punto di vista. È necessario chiarire alcuni concetti, in particolare bisognerebbe abbandonare alcune supposizioni.
In primo luogo, cercherò di articolare una definizione di “riforme politiche dall’interno del sistema”. Con “riforme dall’interno” potremmo pensare ad un Partito Comunista Cinese (PCC) la cui essenza resti fondamentalmente autocratica, ma che intraprenda riforme al suo interno,seguendo la via intrapresa dal Vietnam di una cosiddetta “democrazia interna al Partito”. Potremmo accettarlo?
Questa strada potrebbe essere ben accetta, a patto che essa rappresenti soltanto il primo passo verso una generale fase di democratizzazione del Paese, e che, infine, la democratizzazione della Cina si fondi su una discussione aperta sull’applicazione della Costituzione, garantisca la libertà di associazione, e dia il via a una nuova fase di libertà e trasparenza per i mezzi d’informazione e le elezioni. Alle riforme “dall’interno” intese in questo senso non serve opporsi né tantomeno farsi prendere dall’ansia; certamente ci sarà gente che prenderà parte a questo movimento; allo stesso modo ci saranno coloro che continueranno ad attenersi rigorosamente ad un metodo di opposizione “esterno” al sistema.
Il movimento per la democrazia potrà prendere differenti direzioni: deve essere visto infatti come un corpo che, pur avanzando da diverse direzioni, colpisce in modo unitario.
In secondo luogo, se per “riforme politiche dall’interno” intendessimo che il PCC, con la sua forza interna, metta in moto la macchina del cambiamento democratico generale (in altri termini, il fenomeno Yeltsin), in tal caso dovremmo opporci ancor meno.
Allora anche il rapporto che intercorre tra noi [il popolo] e loro [il partito] si dovrà adattare a seconda delle circostanze. Personalmente ritengo che quella sarebbe una fase in cui cooperazione e competizione dovranno andare di pari passo.
In terzo luogo, il cambiamento potrebbe avvenire grazie al lavoro di una fazione d’opposizione esterna al sistema o, in altri termini, grazie alla cosiddetta via della “natura costruttiva della fazione di opposizione”, argomento affrontato anni fa dal movimento democratico. Sebbene non sembri molto diversa dal secondo tipo di strada delle riforme, anzi appaia ancor più ardua e con scarse possibilità di successo, al punto che c'è chi la paragona ad una mossa degli scacchi, io non solo non mi oppongo, ma sostengo che ci sono possibilità certe di battere il nemico con una mossa a sorpresa. Se questa scorciatoia riuscisse a portare verso la democratizzazione della Cina, ovviamente la sosterrei ad occhi chiusi.
Tuttavia, se il movimento democratico cinese venisse visto come una strategia, se riponesse tutte le speranze in questo cambiamento e se, per coordinarsi con questa strategia rinunciasse a ogni forma di opposizione al regime autoritario del PCC, in tal caso io mi opporrei risolutamente.
Il carattere indipendente che vige all’esterno del sistema non può assolutamente esser messo in discussione: questo è un requisito chiave per la democratizzazione totale del Paese. Il movimento democratico cinese negli ultimi anni ha sacrificato tanto per raggiungere questo traguardo, non si possono dunque sprecare tutti gli sforzi fatti a causa delle illusioni di alcuni sulla strategia da adottare. Sono proprio queste le intenzioni di molti amici del movimento democratico che si oppongono alle riforme politiche "dall'interno", ma queste non sono altro che paure infondate: vale la pena farsi avanti, è bene parlarne, senza far troppa confusione, poiché la situazione attuale del movimento democratico fa si che, anche se c’è chi ha queste idee, non si possono cambiare le opinioni della maggioranza, né tanto meno si può influenzare la strategia del movimento in generale.
In quarto luogo, bisogna considerare la posizione di chi ha rinunciato a qualsiasi tipo di riforma del sistema vigente e ritiene che fondare un sistema politico completamente nuovo sia l’unica strada plausibile. Questa scuola di pensiero è ulteriormente divisa in chi sostiene la rivoluzione pacifica e chi, al contrario, sostiene quella violenta.
Una rivoluzione non violenta prevede il sostegno e la promozione di un movimento democratico di tutta la nazione, l’impiego di metodi quali manifestazioni di strada, sit-in e sciopero della fame, al massimo l’occupazione di strutture mediatiche o altri metodi di paralizzazione sociale per promuovere un cambiamento del regime. Fenomeni del genere si sono già verificati in passato; ad esempio, molti Paesi dell’Est Europa hanno intrapreso proprio questa strada, o ancora, durante la Primavera Araba ci sono stati altri esempi di cambiamento del regime politico attraverso resistenze non violente.. Se in Cina si verificasse una simile situazione, non dovremo assolutamente sottovalutare il suo impatto sociale e lo shock che la popolazione dovrà sopportare; il movimento democratico non deve soffermarsi a riflettere esclusivamente sul suo obiettivo politico, mettendo in secondo piano l’interesse del popolo nella sua interezza. Tuttavia, perché questo piano abbia successo, si dovrebbero verificare condizioni favorevoli, per non parlare di una miriade di altri fattori. In altri termini, il successo sarebbe più facile raggiungerlo per caso, piuttosto che con un'estenuante ricerca. Dal momento che questa via non può essere “cercata”, bisogna considerarla solo una strategia del movimento democratico; che la si sostenga o la si critichi, appare comunque prematura. L’attitudine che dobbiamo adottare a riguardo è riconoscere che, sebbene ardue, le possibilità di riuscita certamente ci sono, e, al contempo, prepararsi mentalmente.
Ci sono infine i sostenitori della rivoluzione armata. Spesso particolarmente infervorati dalla loro causa, essi criticano gli altri punti di vista per essere troppo deboli, arrendevoli, opportunisti. Negli ultimi vent’anni non ho mai incontrato nessun sostenitore di questa idea, eccetto qualche occasione in cui ho udito applausi e boati emotivi, che non hanno prodotto altro risultato se non la sensazione di supporto alla causa, ma non ho mai assistito ad alcun piano concreto. Quindi, non solo mi oppongo ma non intendo neanche sprecar tempo a discuterne.
[in copertina: "Red China", Cai Lian]
Tradotto da
Marino Palmirotta, 28 Febbraio 2013
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