Masanjia – Il campo di rieducazione femminile


2013 Lug
26

Masanjia – Il campo di rieducazione femminile


Masanjia è un campo di rieducazione attraverso il lavoro per sole donne. Da pochi anni un gruppo di detenute lotta per denunciare alle autorità le pratiche disumane condotte nel centro. Nella loro denuncia si confondono motivi sociali e politici, poiché all'interno del gruppo si registrano affiliate del Falungong 法轮功. La notizia giunge sulle pagine della stampa occidentale in seguito a un reportage condotto dalla rivista Lens, costretta per questa ragione a sospendere le pubblicazioni. A poca distanza dall'uscita del reportage, anche Du Bin 杜斌, documentarista autore di un lavoro su Masanjia, scompare senza lasciar traccia. Di seguito proponiamo un estratto del reportage incriminato, che abbiamo tradotto per il n° 1005 di Internazionale



Wang Yuping entrò a Masanjia proprio nel periodo di punta delle ordinazioni.Sedeva su un vecchio panno di cotone macchiato di sangue e faceva le asole degli abiti: «ogni giorno dovevamo fare ottocento pantaloni di cotone, stavamo in fabbrica venti ore al giorno». Prima di dormire non si spogliava. Non si lavava né viso né piedi: «conservavo le energie per il lavoro».

Nel diario “della rieducazione” tenuto da Liu Hua si legge che la seconda brigata aveva tre unità di lavoro, con venti persone addette al confezionamento, sedici al taglio, cinquanta ai ricami e altre cinquanta alla cucitura. Nel 2010, all’interno del campo femminile di Masanjia, sono stati prodotti centosessantamila cappotti e trentamila pantaloni, oltre a ventimila divise da lavoro e cinquemila ordinazioni di pantaloni da Canton e Shishi, per un totale di circa duecentoventimila capi d’abbigliamento.

Tra il 23 febbraio e il 20 maggio 2011, nel centro vennero cuciti trentamila completi. Tra il 1 giugno e il 20 agosto, per conto di un’azienda di vestiario e biancheria da letto –la Jienidan di Shenzhen- vennero lavorati centomila piumini di tutti i modelli, da un metro e sessanta a un metro e novanta di altezza. Il diario “delle petizioni” di Liu Hua fu vergato con avanzi di materiali impermeabili impiegati per i rivestimenti interni di questi abiti. Dal 23 agosto fino alla fine dell’anno i completi confezionati furono in tutto quarantamila.

Jia Fengqin è un’operaia in pensione, in passato ha lavorato nell’industria tessile di Lingyuan. Nel 2004 venne condannata alla rieducazione attraverso il lavoro e scoprì quanto fossero diversi i ritmi di lavoro: «almeno dieci ore di lavoro consecutive, che di norma diventavano dalle dodici alle quattordici ore». La sveglia era alle cinque, poi c’era la fila per timbrare il cartellino e dalle sei e mezza si lavorava fino alle undici e mezza, mentre il pomeriggio iniziavamo a mezzogiorno e mezza e finivamo alle cinque e mezza. Stando alle rivelazioni di Xiao Xi (nome di fantasia di una persona che operava all’interno di Masanjia), durante gli straordinari che precedevano le consegne non c’era un preciso orario di lavoro e si poteva lavorare oltre la mezzanotte, fino anche all’una o alle due di notte.

Nel regolamento diramato dall’Ufficio per la rieducazione attraverso il lavoro del Ministero di giustizia, è scritto che all’interno dei centri l’orario di lavoro non deve superare le sei ore giornaliere. Gli straordinari, dovuti ai picchi stagionali, alle scadenze o ad altre ragioni particolari, andrebbero valutati e approvati dagli appositi dipartimenti, ma in ogni caso non potrebbero essere superiori alle due ore giornaliere. In realtà nella catena di montaggio un’operazione svolta lentamente ha delle ripercussioni sull’anello successivo. Quindi è sottoposta a sanzioni, punizioni corporali e aggiunta di ore di lavoro.

Le scadenze giornaliere sulla quantità della produzione devono essere necessariamente rispettate. A Liu Hua erano affidati lavori leggeri di taglio e cucito e doveva anche assegnare le taglie ai colli e alle maniche. «In un giorno dovevo trattare dai milleottocento ai duemila capi, inoltre stiravo circa tremila vestiti». Per le sarte la quantità assegnata era di trecentoventi capi. Tra i dati registrati nel diario “delle petizioni”, si legge che il 20 luglio 2010, Liu Hua aveva portato a termine il compito assegnatole, ma la caposquadra (scelta come sovrintendente alla produzione tra le donne sottoposte alla rieducazione attraverso il lavoro) le chiese di aggiungere altri cinquanta capi sulla sua tavola. Quando Liu Hua provò a controbattere, la caposquadra la picchiò in presenza di quadri e vigilanti. La colpì con tale violenza che dovette fare una TAC presso l’ospedale carcerario di Dabei.

Mei Qiuyu, a causa dei problemi fisici provocati da un parto indotto, non riusciva a portare a termine il lavoro giornaliero nelle quantità stabilite, così la caposquadra di turno le permise di scegliere se lavorare fino a notte tarda o se restare in piedi per punizione. Mei Qiuyu scelse la punizione, allora la caposquadra la spinse a terra e con il tacco premette sul suo polpaccio, provocando una profonda ferita che si rimarginò solo dopo alcuni mesi. La cicatrice sulla gamba è ancora oggi chiaramente visibile.

Il sabato non si può studiare né si riposa, spesso neanche la pausa domenicale e quelle festive vengono rispettate. Lu Xiujuan rimase particolarmente colpita quando l’8 marzo del 2005 –in coincidenza con la festa della donna- lei e le sue compagne invece di riposarsi dovettero lavorare tutto il giorno e fare gli straordinari fino a notte fonda. Continuò a lavorare fino a entrare in uno stato confusionale. Lavorare fino allo sfinimento è una pratica comune.

Wang Guilan aveva una sartoria, perciò il lavoro in officina le era piuttosto familiare e rispetto alle compagne si muoveva con maggiore rapidità. Era in grado anche di istruire le colleghe e di riparare i macchinari. Però aveva già superato la sessantina e le capitava più volte di addormentarsi sul posto di lavoro. Una persona comune avrebbe potuto essere premuta contro il tavolo da lavoro e picchiata dalla caposquadra con una lastra di ferro sulla testa e sulla schiena, ma Wang Guilan non veniva punita per via della sua competenza, ma. Liu Hua riferì che a una compagna di nome Wang Suzhi fu premuta la testa sul tavolo e fu presa a pugni dalla caposquadra finché non svenne. All’arrivo del ciclo mestruale non era più in grado di controllare le perdite e in ospedale le fu diagnosticata una lesione cerebrale.

Gli orari di lavoro erano inviolabili, per cui veniva respinta qualsiasi ragione volta a interrompere le attività lavorative. I bagni dell’officina erano chiusi a chiave e ogni persona poteva andarci solo tre volte al giorno. Questo era uno dei motivi di conflitto tra capi delle unità di lavoro, capisquadra e internate nel campo.
La malattia non consentiva di evitare la rieducazione attraverso il lavoro. Jia Fengqin era in possesso di una prescrizione per delle iniezioni intravena, rilasciata dal centro sanitario del campo per degli accertamenti. Il trattamento privilegiato che ottenne stabiliva che doveva “avere cura del lavoro e poteva essere esentata per un giorno dagli straordinari”, ma non veniva contemplato un periodo di riposo.

Peng Daiming (in passato Vice direttore del complesso di Masanjia) ricorda che «quadri, vigilanti e capisquadra di bassa levatura pensavano che alcune donne si fingessero malate per evitare il lavoro. Anche se sostenevano di non farcela, venivano tirate fuori dagli alloggi e costrette a stare sul posto di lavoro».
Mei Qiuyu, che non era in condizione di andare in officina per la ferita che aveva riportato, fu trascinata di peso in officina. Non trovando una posizione seduta stabile, dovette lavorare ai cappotti militari stando inginocchiata a terra; il tutto fu compiuto a scopo dimostrativo. La caposquadra disse che l’avrebbe sottoposta ad agopuntura, così prese un ago dalla macchina da cucire e le punse un dito, poi prese degli aghi per cucire a mano e li conficcò alla rinfusa sulla schiena dell’anemica Mei Qiuyu, dalla cui pelle non uscì una goccia di sangue.

Negli ultimi anni le petizioniste sono aumentate. E siccome sono convinte di non aver commesso errori, spesso, una volta entrate a Masanjia si rifiutano di lavorare. Ricevono così punizioni severe. Xiao Xi sostiene che negli ultimi due anni è stata questa la principale ragione di conflitto tra quadri e vigilanti da una parte e internate dall’altra. La petizionista Zhu Guiqin, ufficialmente disabile, da quando ha fatto ingresso nel centro si è sempre rifiutata di lavorare e ha dovuto affrontare un lungo isolamento per poi essere sottoposta a misure dissuasive o a punizioni severe. In tutto il centro di rieducazione è una delle poche donne a non avere mai lavorato neppure un giorno.

A Masanjia l’eccesso di lavoro è una tradizione consolidata. Peng Daiming ricorda che, nelle vesti di Vice direttore responsabile della gestione dell’istruzione, si scontrò con il Vice direttore responsabile della produzione. Avrebbe voluto garantire maggiore spazio all’istruzione, ma le ore di lezione erano occupate dalle attività lavorative. Secondo Xiao Xi, a causa della prevalenza delle ore di lavoro, anche la vigilanza era costretta a una vita dura, in tutto e per tutto votata al lavoro, con ore di straordinario destinate alla sorveglianza.

Il complesso di Masanjia si trova nei sobborghi occidentali di Shenyang. Stando ai registri ufficiali, la superficie complessiva è di trentamila mu [più di duemila ettari, ndt]. Oltre alle aree occupate da diversi centri di detenzione e di rieducazione attraverso il lavoro, ci sono anche quindicimila mu di terre coltivate. Fino ad alcuni anni fa, questi campi erano interamente coltivati dai detenuti e producevano mais e cotone.

Oltre a questi lavori, i condannati venivano impiegati soprattutto fuori dal centro di rieducazione, per lo scavo di canali e la costruzione di strade. «A quel tempo, per le strade di Shenyang, quando vedevi un gruppo di persone in canottiera gialla impegnato in lavori di fatica, erano senz’altro gli internati di Masanjia». A parlare è Wang Licheng, avvocato che in passato si è occupato per conto degli organi di giustizia di tematiche inerenti alla rieducazione attraverso il lavoro. Le donne, invece, erano impiegate principalmente nella produzione di biancheria da letto, vestiti e prodotti di artigianato.

Il complesso di Masanjia è provvisto di una fabbrica di biancheria da letto, uno stabilimento di trasformazione, uno stabilimento tessile, un allevamento suino meccanizzato, un impianto per la sinterizzazione e un’azienda di abbigliamento. Nel diario “delle petizioni” viene menzionata una branca della Xiyu Clothing Ltd, il cui recapito risulta essere all’interno del complesso di Masanjia. Il personale registrato va dalle cinque alle dieci unità, ma in realtà le vere operaie provenivano principalmente dal centro femminile di rieducazione attraverso il lavoro.

Nei momenti di maggiore affollamento, all’interno del centro di Masanjia, erano rinchiuse più di cinquemila unità, il cui lavoro non retribuito produceva enormi introiti. Secondo Peng Daiming, le entrate annuali dei lavori fatti fuori dal centro potevano superare il milione di yuan e, se si aggiungono le entrate generate dalle coltivazioni e dagli stabilimenti, il valore totale della produzione su base annua si avvicinava ai cento milioni di yuan [circa dodici milioni e mezzo di euro, ndt].

Negli ultimi anni, lo stato ha interrotto la politica che richiedeva alle stesse strutture di rieducazione attraverso il lavoro di reperire autonomamente parte dei fondi per il proprio mantenimento. Lo stato si impegnava a sostenere le spese quotidiane tanto degli addetti alla sicurezza quanto degli internati. Da membri di aziende pubbliche, i quadri e i vigilanti divenivano così veri e propri funzionari di stato, le cui spese per il vitto e l’assistenza sanitaria, assieme a quelle di coloro che venivano sottoposti alla rieducazione, erano a carico dello stato. Tuttavia, la gestione dei costi individuali da parte statale non eliminò la funzione del lavoro, né fu in grado di azzerare la ricerca di introiti, per cui gli eccessi di lavoro non sparirono.

Xiao Xi sostiene che negli ultimi anni le voci sull’abolizione della rieducazione attraverso il lavoro si fanno più frequenti. Gli alti dipartimenti hanno intensificato i controlli degli orari di lavoro; a volte sono stati effettuati dei blitz a notte inoltrata e con l’installazione di telecamere nelle officine finalmente sono stati regolarizzati gli orari di lavoro. Ad ogni modo, Wang Zhen ha recentemente fatto visita alla moglie Liu Yuling, che gli ha detto che le nove ore di lavoro giornaliero non hanno subito alcun mutamento.

Le donne sottoposte alla rieducazione attraverso il lavoro producono enormi entrate, tuttavia non godono di remunerazione e sono prive di copertura assicurativa. Peng Daiming ricorda che, quando era in carica, per le persone sottoposte alla rieducazione non era contemplata nessuna remunerazione. Negli ultimi anni, è stato rilasciato un sussidio simbolico di dieci yuan mensili [poco più di un euro, ndt], una cifra irrilevante che in molti casi non giunge nemmeno per intero nelle mani delle lavoratrici.

Peng Daiming è sempre stato convinto che le donne sottoposte alla rieducazione non fossero criminali comuni e avrebbero avuto diritto a uno stipendio, come tutte le lavoratrici. Stando al “programma pilota per la rieducazione attraverso il lavoro”, promulgato nel 1982 dal Consiglio di stato, le amministrazioni dei centri di rieducazione attraverso il lavoro dovrebbero erogare uno stipendio adeguato, calcolato sulla base del tipo di prestazione, delle competenze tecniche, dell’ammontare e della qualità della produzione. Tuttavia, in realtà, questo regolamento è valido solo sulla carta. Quando furono istituiti i centri di rieducazione attraverso il lavoro, negli anni Cinquanta dello scorso secolo, questi erano sotto la gestione del Ministero degli affari civili. All’epoca, le persone sottoposte alla rieducazione ricevevano uno stipendio, ma ben presto la pratica cadde in disuso.

A paragone con i veri criminali, le persone che operano nei centri di rieducazione non hanno la minima garanzia in materia di sicurezza e di assistenza medica, a causa di un vuoto normativo. A lungo termine, le dure condizioni di lavoro fanno sì che le condannate alla rieducazione contraggano regolarmente patologie come l’iperplasia del tessuto osseo vertebrale o l’ernia del disco, senza però avere modo di curarle.

Alcuni anni fa, nell’impianto di sinterizzazione nel complesso di Masanjia, avvenne un incidente senza precedenti, in cui perirono delle operaie. Peng Daiming ha rivelato che a quei tempi in caso di infortunio sul lavoro non era previsto alcun risarcimento; semplicemente veniva anticipato il rilascio della persona in questione, che era subito rimpiazzata.

Oggi si vorrebbero evitare casi del genere, ma lo status di chi è sottoposto alla rieducazione attraverso il lavoro non è ancora stato equiparato a quello di un lavoratore. Raffrontando la rieducazione attraverso il lavoro con il regime carcerario, emerge che quest’ultimo dispone esplicitamente che il lavoro svolto dai detenuti sia tutelato dalla legge sul lavoro; in caso di infortunio si fa riferimento alla normativa nazionale in materia di assicurazioni sul lavoro.

La rieducazione attraverso il lavoro produce enormi introiti e di conseguenza genera corruzione. I proventi ricavati dalle officine nei centri non richiedono l’intervento di organi amministrativi finanziari o giudiziari di livello superiore, perché i centri godono di un’organizzazione autonoma, tuttavia la gestione finanziaria non viene resa pubblica. «Terreni di migliaia di mu, affitto delle officine e ricavi del lavoro nelle officine –afferma Xiao Xi-, niente va a beneficio di quadri e vigilanza».

Nel 2004, la procura di Shenyang trattò il caso di corruzione di Zeng Hongguang –che operava all’interno di Masanjia-  condannato infine a dodici anni. Ma a catalizzare l’attenzione dei quadri del centro fu invece l’inchiesta nei confronti di un “tale” Zhang, in quegli anni direttore del centro di Masanjia. In seguito, l’inchiesta della procura sarebbe stata archiviata, mentre il “tale” Zhang fu trasferito, ottenendo un posto in una “certa” impresa facente capo agli apparati giudiziari.

Secondo un documento diramato su internet dai quadri e dalla vigilanza di Masanjia, il progetto per l’area residenziale di Hepan, destinata ai loro alloggi, richiese loro un contributo di mille yuan al metro quadro. I costi finali furono però di ottocento yuan al metro quadro, cosicché si venne a creare un surplus di più di ventitre milioni di yuan, che però non fecero più ritorno nelle loro tasche. Per questo caso il “tale” Zhang fu destituito, anche se riuscì comunque a evitare condanne.